E già, sono appena tornato da un lungo e intrigante “viaggio” che l’amico Antonio Lisi mi ha invitato di fare per approfondire la conoscenza di quel bizzarro brano di Jim Pepper (sassofonista e compositore), che pubblicò nel 1969 (in un 45 giri) con il suo gruppo Everything Is Everything.
Esplorando Witchi Tai To, strani incroci geografici, temporali e di culture; Norvegia, costa est e costa ovest degli U.S.A., attraversando il Midwest del Missouri e gli Stati Uniti Centrali del Sud dell’Oklahoma.
E già, sono appena tornato da un lungo e intrigante “viaggio” che l’amico Antonio Lisi mi ha invitato di fare per approfondire la conoscenza di quel bizzarro brano di Jim Pepper (sassofonista e compositore), che pubblicò nel 1969 (in un 45 giri) con il suo gruppo Everything Is Everything.
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L’innovativa declinazione “bianca” del Jazz ebbe nel ventennio tra la metà dei Quaranta e dei Sessanta notevoli esponenti che influenzarono la musica a tutto tondo (tra gli altri - Lennie Tristano, Stan Kenton, George Russell, Jimmy Giuffrè, Tony Scott, Paul Desmond, Dave Brubeck, Don Ellis).
Musica ben più innervata dalla Classica (non di rado pure dall’etnica mondiale) e ben poco dal Blues, fu pertanto un Jazz di ricerca e sviluppo di matrici centro-europee (e orientali). Quindi non semplici temi su cicli blues o canzoni, ma composizioni di altro tipo - sovente complesse - insieme con improvvisazioni; non inesorabilmente accompagnate da walkin’ e swing. Il “dark side of the love supreme” di John Coltrane fu registrato sei mesi dopo il “lato chiaro”: ma Transition non fu pubblicato in quel periodo, solo anni dopo, e ciò ha contribuito a depotenziare il suo impatto*.
E se è vero come è vero che raramente i dischi postumi dei grandi artisti sono ottimi dischi, Transition è uno di questi. Registrato in due sessioni: 26 maggio e 10 giugno del 1965, pubblicato nel 1970; col suo classico quartetto, McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison contrabbasso ed Elvin Jones batteria. Il tocco di un musicista sovente è citato; in modo alquanto generico, superficiale.
Pur tralasciando gli aspetti più specialistici e tecnici (che si possono trovare negli approfondimenti fatti nei miei libri Tecnologia Musicale, Viaggio all’interno della Musica e Quaderni Musicologici), tentiamo di comprendere cosa significhi, affrontando l’argomento in maniera tale da intendere correttamente cause ed effetti del “tocco” musicale. He Loved Him Madly è il primo requiem elettrico – visionario - di un grande jazzista, e in assoluto il più lungo.
Benché una smentita può esserci dietro l’angolo, in ogni caso, questo brano è straordinario. Registrato nel giugno del 1974 fu pubblicato nel novembre dello stesso anno nel doppio Get Up With It , ultimo album in studio di Miles Davis prima dei cinque anni del suo ritiro. Estetica e poetica, due termini che spesso si confondono.
Non dovrebbero confondersi il Free jazz e il Punk. Eppure… Il Free jazz, sorto tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta del ‘900 per opera anzitutto di Ornette Coleman - seguito da giganti* come Eric Dolphy e John Coltrane (nei suoi ultimi tre anni di vita ‘65-’67) - è un fondamentale stile di Jazz che da lì, con alterne fortune artistiche e di successo di pubblico, si è variamente conformato fino ai giorni nostri. Conobbi la loro impegnativa musica che avevo circa vent’anni tramite un’antologia dei loro primi dischi: mi stregò il loro particolarissimo mondo di suoni; incisivo ed etereo, intriso di carnalità e spiritualità al contempo.
Non avevo ascoltato fino ad allora nulla che somigliasse a ciò e, soprattutto, nemmeno nei decenni successivi nelle mie più ampie e profonde esplorazioni musicali*. Ho avuto tre genitori.
Jimi Hendrix, Jimmy Page e Carlos Santana; con loro sono nato. E cresciuto. Dunque pienamente rock; poi una valanga di altri. Il Jazz è arrivato parecchi anni dopo, principalmente mediante la Fusion (e il Jazz-Rock), ossia capii che per comprendere e suonare la musica dei miei nuovi eroi (i chitarristi erano i soliti McLaughlin, Di Meola, Scofield, Benson, Ford, Henderson ecc.) avrei dovuto studiare seriamente il Jazz. Fu assai dura; non è come per suonare il Rock, il cui lessico è banale: scala Pentatonica, scala Maggiore con la sua derivata Minore, punto. E.S.P. è tra i dischi più importanti della carriera di Miles Davis; per più di un motivo.
Fu registrato nel gennaio del 1965 e pubblicato l’agosto di quell’anno dal quintetto che da qualche mese suonava in giro per il mondo; oltre a lui alla tromba, c’erano Herbie Hancock al piano, Wayne Shorter al sax, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Le sette composizioni sono tutte a firma di uno dei componenti del gruppo (due la coppia Carter-Davis) fatto salvo il batterista, e si discostano significativamente dalle cose fatte fino ad allora; è un disco di svolta. Oltre a essere “democratico” nelle autorialità delle composizioni è assai equilibrato in quanto ad assetti musicali, sia percettivi sia nella sostanza. Non è certo demerito degli ascoltatori, ma è dei cosiddetti giornalisti musicali e simili (quindi di chi si è incaricato di informare di musica), se da sempre vige una confusione pressoché totale per quanto concerne i termini usati per indicare le varie declinazioni musicali inerenti la musica moderna.
Termini dunque molto utili, soprattutto allorquando precisi, naturalmente rammentando che sempre ci sono state e ci saranno gradualità più o meno significative di ibridazioni. Utili non tanto e non solo per orientare il fruitore nell’ascolto e il conseguente acquisto dei dischi – magari bulimico, agognato dall’industria e dal suo indotto - quanto per farne comprendere almeno un po’ le vere caratteristiche musicali, facendo la tara a quelle di superficie, contribuendo così a una più profonda consapevolezza degli ascoltatori di ciò di cui si sono appassionati. Quella tra generi e stili è la prima e complessiva confusione. Mi rammarica non avere più il mio primo strumento; sono oltre quaranta anni che mi manca.
Da ragazzino undicenne avevo dei bonghi nordafricani che malamente percuotevo, tentando di andare appresso ai brani dei miei beniamini musicali. Ho continuato così per qualche anno, pure dopo che ebbi la mia prima chitarra. Benché il mio primo incontro con la musica (che non fosse solo ascoltarla) fu con una tastierina elettronica Bontempi che aveva un mio amichetto di 9 o 10 anni. Nel 1987 Wynton Marsalis pubblica il disco Standard Time Vol.1, un’opera che si discosta dalle due precedenti, Black Codes e J Mood (di notevole pregio), in cui non erano presenti standard e lui ne era quasi esclusivamente l’autore.
Qui propone sue interpretazioni di brani della comune “letteratura” jazz. E pure questo disco è di gran rango, a fronte sia degli arrangiamenti sia delle esecuzioni generali; svettano i suoi solismi e quelli del pianista Marcus Roberts (sostituì da J Mood Kenny Kirkland). Oltre a consueti pezzi come Caravan, A Foggy Day e Cherokee, sono presenti anche due sue composizioni: Soon All Will Know e In the Afterglow. Ma è il brano più famoso in assoluto della selezione, Autumn Leaves, che riceve un arrangiamento, nell’esposizione del tema, degno di essere messo in evidenza per la sua peculiarità; al netto della sua estrema velocità. Come per la chitarra nessuno strumento ha avuto così tante e diverse declinazioni nei vari generi e stili.
Storicamente, così tanti strumentisti diversi tra loro sia in assoluto sia all’interno di un genere come per i chitarristi non si riscontrano; e ciò che fa più impressione, almeno a me, è nel Jazz. E non soltanto nell’aspetto più evidente, quello timbrico, ma proprio nel linguaggio. Ancorché intorno agli anni 2000 si sia delineata una certa direzione nell’improvvisazione: l’influenza solistica di Pat Metheny, che pure prima era fortissima, prevale su tutte. Tutti hanno i loro brani musicali preferiti, quindi pure io.
La cosa particolare è che presto ho scoperto che tra i tantissimi pezzi che via via ascoltavo, dalla mia adolescenza in poi, le mie preferenze non di rado avevano un denominatore comune che andava oltre gli autori, i generi e gli stili musicali. Dapprima e soprattutto ho amato Black Napkins, A Night in Tunisia e Nardis (di Frank Zappa, Dizzy Gillespie e Miles Davis): un’attrazione che le decadi di anni trascorse non ha indebolito, è ancora potentissima. The New Standard fu pubblicato da Herbie Hancock all’alba del 1996.
Oggi, 2024, sono passati quasi trent’anni; tanti quanto il tempo trascorso tra quel disco e uno dei Beatles o dei Cream. Ci permette di fare qualche riflessione e trarre alcune conclusioni. Fu suggerito dalla casa discografica Verve, che gli propose di realizzare un disco di canzoni pop-rock “jazzificate”. Similmente a ciò che avevano fatto negli anni ’60 Wes Montgomery e George Benson. Hancock, dopo un primo rifiuto, perché riteneva la proposta troppo smaccatamente commerciale, accettò di farlo. Da oltre mezzo millennio sì è progressivamente sviluppata una formidabile risorsa musicale: l’arpeggio melodico.
Da quando in Europa nel XVI secolo si è iniziato a teorizzare e usare gli accordi, pertanto a mischiarli con la polifonia medievale (basata su più linee melodiche scalari), quindi a svilupparli sempre più in sequenze nel XVII secolo, giungendo nel secolo successivo a fondare il Sistema Tonale. L’arpeggio melodico* è semplicemente suonare (o cantare) le note costituenti un accordo, una dopo l’altra senza far risuonare le precedenti (come nell’arpeggio armonico). Se in musica l’improvvisazione assoluta, totale, in sostanza non è riscontrabile, la piena modellizzazione e quindi pianificazione musicale sì.
Innumerabili esempi soprattutto nella Classica, ma presenti pure in altri ambiti (orchestre varie, Big band, Pop, Dance ecc.), ove è tutto o quasi predeterminato. Pertanto è l’amplissima e affascinante “terra di mezzo” che, per sommi capi, ci accingiamo a scoprire: l’invenzione musicale estemporanea, benché non totale. La cosiddetta improvvisazione, che risiede in massima prevalenza nelle parti di chi s’incarica di fare un solo Solar è un brano jazz molto interessante, tanto noto quanto misterioso, per vari motivi.
Fu registrato e pubblicato nel 1954 da Miles Davis nel disco Miles Davis Quintet (poi ancora stessa versione nel ‘57 nel disco Walkin’), di cui pure è autore. E qui il primo e più prosaico arcano: che Davis fosse piuttosto disinvolto nell’appropriazione di idee altrui è cosa risaputa, com’è ormai risaputo che il chitarrista Chuck Wayne suonava un pezzo del tutto simile già nel 1946: ma non fu mai pubblicato, e non si sa come Davis sarebbe venuto a conoscenza del brano (conosciuto poi come Sonny). My Favorite Things, brano che in origine era nel musical del 1959 “The Sound of Music” (composto da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II e conosciuto in Italia mediante il film col titolo “Tutti insieme appassionatamente” del ’65), siccome lo ascoltai nella versione di Coltrane, fu il primo pezzo jazz di cui m’innamorai.
Come spesso accade, l’”incontro” fu a casa di un mio amico dell’epoca (primi anni Ottanta); era uno dei dischi della sorella (più grande di noi). Tim Buckley è stato tra i più importanti cantautori statunitensi; in attività a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, morì prematuramente nel 1975 all’età di 28 anni.
Non molto conosciuto dal grande pubblico, è però oggi una figura di culto per una nutrita nicchia di ascoltatori e parecchio stimato dalla pubblicistica. Eberhard Weber è un musicista (primariamente contrabbassista e bassista) e compositore tedesco, attivo come leader di dischi nei primi anni Settanta per la casa discografica ECM, divenendo anche per ciò collaboratore di tanti compositori pubblicati da questa prestigiosa etichetta (Pat Metheny, Jan Garbarek, Gary Burton e molti altri).
L’altra sera a cena, parlandone brevemente con un amico (grande appassionato di musica, specialmente jazz-fusion), mi è venuto in mente che di quel disco-incontro di due apprezzatissimi artisti, ancorché ne avevo fatto tesoro, non ne avevo mai scritto una riga.
I Can See Your House from Here è il nome* del disco pubblicato nel lontano 1994 (registrato dicembre 1993) dai chitarristi-compositori John Scofield e Pat Metheny. È particolarmente interessante per vari motivi. I decisivi apporti e rapporti del Blues e del Jazz inerenti alla musica moderna li abbiamo visti varie volte e da prospettive differenti; facciamone una breve sintesi e aggiungiamo un tassello.
La grande novità della musica moderna fu l’originarsi all’alba del XX secolo della musica afroamericana: il Blues e il Jazz. Coevi e reciproci in termini di ascendenze e influenze. La struttura formale dei brani musicali è un fondamentale fattore, ma un po’ trascurato da tutti.
È mediamente poco preso in considerazione dai compositori di Jazz, Pop, Funk, Rock ecc., e assai poco rilevato dagli ascoltatori; seppur non c’è bisogno di un’istruzione musicale specifica, basta prestare un minimo di attenzione. O meglio, i compositori lo prendono in considerazione, ma nel senso che la stragrande maggioranza lo dà per scontato, appoggiandosi a una forma monotematica strofa-ritornello con le ali Intro-Coda. E quindi gli ascoltatori si sono assuefatti, pertanto ancor meno inclini a notare la forma musicale del brano che stanno ascoltando. Insomma, Intro-A-A-B-A molteplici volte e poi Coda. ECM (Editions of Contemporary Music) è una casa discografica fondata nel 1969 da Manfred Eicher in Germania. È divenuta un punto di riferimento per la sua eccezionale estetica: musica atmosferica prevalentemente strumentale di matrice jazzistica.
La sua poetica non è semplicemente della non aggressività, della quiete ritmico-tempistica e rarefazione sonica, con ampie arcate melodiche reiterate, altrimenti sarebbe semplicemente la poetica delle ballad, di pezzi lirici, densi di pathos, “sentimentali”, di cui ce ne sono innumerevoli in tutti i generi. |
Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Gennaio 2025
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