Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

E.S.P. e l'avvio della rivoluzione dolce di Miles Davis

9/6/2024

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E.S.P. è  tra i dischi più importanti della carriera di Miles Davis; per più di un motivo.
Fu registrato nel gennaio del 1965 e pubblicato l’agosto di quell’anno dal quintetto che da qualche mese suonava in giro per il mondo; oltre a lui alla tromba, c’erano Herbie Hancock al piano, Wayne Shorter al sax, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria.
Le sette composizioni sono tutte a firma di uno dei componenti del gruppo (due la coppia Carter-Davis) fatto salvo il batterista, e si discostano significativamente dalle cose fatte fino ad allora; è un disco di svolta. Oltre a essere “democratico” nelle autorialità delle composizioni è assai equilibrato in quanto ad assetti musicali, sia percettivi sia nella sostanza.
​È un’opera che s’inserisce in un periodo in cui le cose più importanti emerse erano il soul jazz, il “modalesimo” di Coltrane (peraltro sono gli stessi mesi di A Love Supreme) e il free di Ornette Coleman (ed epigoni).
Ma questa nuova creatura di Davis non si mette in scia di nulla di ciò, né delle sue stesse cose fino ad allora espresse, sorta di neo hard-bop: E.S.P. è tutto quello mischiato in una sintesi inusitata.
Tre brani in tempi rapidi, tre medi, e un medio-lento; insolitamente in ben tre pezzi è usato il metro di 3/4 - peraltro non diffusissimo nel Jazz – e tutti e tre con carattere da ballad.
​
Il disco si apre con l’omonimo E.S.P. di Shorter; tempo rapido, melodia larga e sinuosa, incisivo.
Gli altri due brani veloci sono R.J. (Carter) - il pezzo più breve: meno di quattro minuti - con un tema e un umore che rimanda vagamente a qualcosa di free; e Agitation (Davis), che si apre con un lunghissimo e notevolissimo solo di batteria*, il tema (suonato dal leader con la sordina) è semplicemente una piccola cellula melodica traslata in progressione; anche questo ha un’aria free.

Little One di Hancock (che qualche mese dopo registrerà lo stesso brano per il suo disco Maiden Voyage) è un medio tempo di stampo nuovo; inizia etereo, quasi astratto, con interpolazioni dei vari strumenti che lo strutturano in modo piramidale, anche emotivamente. Poi s’innesca la scansione temporale, e la composizione prende sempre più forma, benché sempre imprevedibile. Piccolo capolavoro
​Iris (Shorter), organizzato in modo più convenzionale e semplice del precedente, è l’altro medio tempo, ma è ampio e lirico, circolare pure perché monosezione: il chorus (il “giro”) è solo di sedici misure senza cesure, e l’armonia è pianificata in modo da non fornire le solite tensioni-risoluzioni tonali (similmente a Little One: d’altronde come vedremo è la cifra strutturale di questo nuovo quintetto).

Mood (Carter-Davis) è il brano più lungo (quasi nove minuti) col quale il disco si chiude, è il pezzo più lento; Carter e Hancock reiterano delle figure armoniche  e ritmiche,  Miles con la sordina effonde note estreme, sia lancinanti sia appena soffiate, con Shorter che poi segue e contrappunta: l’atmosfera è vagamente iberica, rinviando a Flamenco Sketches.
​
Eighty-One (Carter-Davis) è la terza traccia del disco, altro medio tempo e con uno schema armonico blues convenzionalissimo; quindi apparentemente non ha singolarità che giustifichino l’estrapolazione per un commento più articolato. Nondimeno…
Non ha alcuna intro, principia subito col tema all’unisono dei fiati, la parte del contrabbasso è funky (ancorché il suono lo renda meno incisivo), straordinaria; le armonie, sebbene siano sequenziate come un arcaico blues, sono sospese, né maggiori né minori. Il ritmo è sincopato semplicemente ma con gli ottavi binari, come il rock**: Davis riprenderà questa tipologia di sfondo e lo svilupperà qualche anno dopo, nella fase elettrica. Altresì il tema ha molte note lunghe e silenzi, che caricano la tensione per poi detonare in un unisono su una nota in levare del tempo. 
Insomma una decostruzione e sintesi della tradizione Blues, e dei nascituri Funk e Rock, con dei soli stellari, di Davis in particolare, in cui potenza ed eleganza sono sovrane. D’altronde, contrariamente alla maggior parte di altri strumentisti, soprattutto in scenari bluesy, ardenti come legno nel fuoco, lui è metallo liquido.
Eighty-One come un vettore che poggia sul passato (forma e strutturazione armonica) e nel presente (riff e groove), e che porta verso il futuro mediante il tema e i soli.
Una composizione che sembra essere il modello di uno dei brani jazz-fusion più acclamati dalla fine degli anni Ottanta in poi: Nothing Personal di Don Grolnick.

La chiave fondamentale per comprendere la svolta di E.S.P, cui seguiranno altre proiezioni in tale traiettoria coi dischi seguenti sino a Filles de Kilimanjaro, sta primariamente nell’armonia.
È un’ibridazione tra il sistema tonale e quello modale, intendendo il modale non tanto nella esacerbata staticità dello sfondo quanto nell’ideare sequenze armoniche che non abbiano le secolari connessioni tonali sia nei blocchi accordali e quindi le cadenze che si attuano sia nelle interne conduzioni delle voci melodiche. Così l’armonia anche con pochi accordi è ellittica, sfuggente, astratta: l’effetto è di scarsa prevedibilità delle sequenze e quindi di circolarità.

Di conseguenza le parti melodiche (comprese le linee del contrabbasso), temi e improvvisazioni, pur mantenendo i “piedi per terra” - nel senso che non sono né bizzarre né particolarmente dissonanti (pertanto formalmente con normali parabole melodiche e timbri) - non danno i soliti punti di riferimento, non accadono i soliti nessi melodici, ma sono più sospese, a mezz’aria, per così dire.
​Fluttuano liricamente, senza fratture, anzi, proprio le linee melodiche riescono a saldare le aree armoniche, offrendo un compatto e agile assetto.
Inoltre gli accordi stessi non di rado sono sofisticati e di natura né maggiore né minore (cosiddetti sospesi), o al contempo con tutte e due le caratteristiche.
Dunque, con tutto ciò, le zone d’intervento si ampliano a dismisura, sia potendo intendere il tutto come di una iper sofisticata macro matrice melo-armonica, sia affrontabile in modalità scalari parallele agli accordi di volta in volta.
​
Non dimenticando l’eccezionale apporto di Tony Williams sempre perfettamente a suo agio dentro i brani quale che siano le loro caratteristiche, anzi, spesso spingendo lui al limite tutto e tutti.
Davis, coadiuvato in tutto e per tutto dai suoi compagni di avventura a loro volta dei giganti, ha riplasmato il Jazz dal suo interno, senza violente rivoluzioni, ma con potentissime riforme.
Con E.S.P. inizia la fase massima di sperimentazione davisiana nel Jazz acustico; costantemente tra terra e cielo.


*Mike Shrieve nel suo drum solo Kyoto pubblicato in Lotus, ben superiore a quello famosissimo in Soul Sacrifice a Woodstock, ne trarrà più di uno spunto, quasi citandolo.
** Carter e Williams vanno in walkin’ e swing soltanto negli ultimi due chorus dei soli di Davis e Shorter.
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    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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