Loro, con ovvie e rilevanti differenze stilistiche, in modo continuativo (e Santana con particolare successo) hanno strutturato i loro brani mediante ritmi e riff di chiara discendenza africana, quindi non semplicemente “colorati” del “continente nero” da qualche percussione.
In musica gli elementi africani, tribalistico-etnici, si sono diffusi principalmente per opera dei Santana e del nigeriano Fela Kuti, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso*.
Loro, con ovvie e rilevanti differenze stilistiche, in modo continuativo (e Santana con particolare successo) hanno strutturato i loro brani mediante ritmi e riff di chiara discendenza africana, quindi non semplicemente “colorati” del “continente nero” da qualche percussione.
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Mozart, Genesis, Debussy, Tool... cosa c’entrano gli uni con gli altri? Il numero divino, ovviamente.
Da tempo si legge da più parti che alcuni compositori musicali avrebbero utilizzato la Sezione Aurea... Se pure fosse, sarebbe del tutto inutile. Comunque, sono secoli che si reputa che il mistero dell’armonica e universale bellezza stia in uno speciale rapporto tra le varie parti e il tutto. Ed è più che ragionevole ritenerlo. E allora? Conobbi la loro impegnativa musica che avevo circa vent’anni tramite un’antologia dei loro primi dischi: mi stregò il loro particolarissimo mondo di suoni; incisivo ed etereo, intriso di carnalità e spiritualità al contempo.
Non avevo ascoltato fino ad allora nulla che somigliasse a ciò e, soprattutto, nemmeno nei decenni successivi nelle mie più ampie e profonde esplorazioni musicali*. È tanto data per scontata quanto invalsa, superficialmente e senza argomentazioni serie, la straordinaria creatività di Frank Zappa.
Così, per sentito dire o visto scritto; ben che vada a orecchio - senza accurate analisi - ingenue deduzioni: considerato l’enorme spettro del suo Rock che spazia in tantissimi stili e generi (compreso messe in scena da cabaret con tanto di provocazioni, ironie e satire), Zappa non può che essere geniale... Spesso sia ascoltatori sia musicisti additano questo o quel pezzo come troppo simili tra loro o peggio, veri e propri plagi.
Non di rado è così, benché non solo le note ma pure i timbri, velocità e scenari armonici possono fuorviare. Anche nell’altro senso, cioè che una parte melodica del tutto simile a un’altra non venga percepita così analoga, allorquando suonata da strumenti assai diversi, con articolazioni tecnico-espressive e velocità differenti in scenari armonici non coincidenti. Criptoplagi. Ho avuto tre genitori.
Jimi Hendrix, Jimmy Page e Carlos Santana; con loro sono nato. E cresciuto. Dunque pienamente rock; poi una valanga di altri. Il Jazz è arrivato parecchi anni dopo, principalmente mediante la Fusion (e il Jazz-Rock), ossia capii che per comprendere e suonare la musica dei miei nuovi eroi (i chitarristi erano i soliti McLaughlin, Di Meola, Scofield, Benson, Ford, Henderson ecc.) avrei dovuto studiare seriamente il Jazz. Fu assai dura; non è come per suonare il Rock, il cui lessico è banale: scala Pentatonica, scala Maggiore con la sua derivata Minore, punto. Qualunque ascoltatore può immaginare che una canzone accattivante, magari di successo, sia fondata su fattori molto semplici.
E spesso è proprio così; anche più semplici di quanto si pensi. Ma quei brani hanno sovente qualcosa che li distingue nella loro essenza. Uno di questi è I Wouldn't Want To Be Like You del gruppo britannico The Alan Parsons Project (di fatto il duo Alan Parsons- Eric Woolfson tastierista), pubblicato nel 1977 e contenuto nel disco I Robot. In musica ci sono semplificazioni e approssimazioni atte ad ottenere col minimo sforzo dei buoni risultati in un dato contesto, come già affrontato per la questione dell’equivalenza d’ottava, che poi però divengono norme indiscutibili; ciò limita l’evoluzione musicale.
Pertanto un altro fondamentale fattore assai utile per ampliarne la realizzazione è quello di superare il concetto, ampiamente propalato nei manuali musicali e dalla secolare prassi, di rivolti degli accordi, e stimare ciò che sono le armonie accordali nella realtà oggettiva, fisica. E.S.P. è tra i dischi più importanti della carriera di Miles Davis; per più di un motivo.
Fu registrato nel gennaio del 1965 e pubblicato l’agosto di quell’anno dal quintetto che da qualche mese suonava in giro per il mondo; oltre a lui alla tromba, c’erano Herbie Hancock al piano, Wayne Shorter al sax, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Le sette composizioni sono tutte a firma di uno dei componenti del gruppo (due la coppia Carter-Davis) fatto salvo il batterista, e si discostano significativamente dalle cose fatte fino ad allora; è un disco di svolta. Oltre a essere “democratico” nelle autorialità delle composizioni è assai equilibrato in quanto ad assetti musicali, sia percettivi sia nella sostanza. Non è certo demerito degli ascoltatori, ma è dei cosiddetti giornalisti musicali e simili (quindi di chi si è incaricato di informare di musica), se da sempre vige una confusione pressoché totale per quanto concerne i termini usati per indicare le varie declinazioni musicali inerenti la musica moderna.
Termini dunque molto utili, soprattutto allorquando precisi, naturalmente rammentando che sempre ci sono state e ci saranno gradualità più o meno significative di ibridazioni. Utili non tanto e non solo per orientare il fruitore nell’ascolto e il conseguente acquisto dei dischi – magari bulimico, agognato dall’industria e dal suo indotto - quanto per farne comprendere almeno un po’ le vere caratteristiche musicali, facendo la tara a quelle di superficie, contribuendo così a una più profonda consapevolezza degli ascoltatori di ciò di cui si sono appassionati. Quella tra generi e stili è la prima e complessiva confusione. Money dei Pink Floyd è tra i brani Pop-rock più famosi ma meno “conosciuti”.
Pubblicato nel celebre disco del 1973 The Dark Side Of The Moon, è tra le hit che più si può considerare fusione di fattori semplici ma determinanti di vari stili e generi. Blues, Reggae, Rock, Progressive e R&B, ciò che più connette in Money questi generi è l’andamento ritmico: per tutta la sua durata è pervaso e “sorretto” dal ritmo terzinato shuffle (tipico del Blues e i suoi derivati). L'altra caratteristica sono le parti di basso, oltre quella celebre ed evidente del riff principale: sono le fondamenta propulsive di tutte le fasi di Money. Mi rammarica non avere più il mio primo strumento; sono oltre quaranta anni che mi manca.
Da ragazzino undicenne avevo dei bonghi nordafricani che malamente percuotevo, tentando di andare appresso ai brani dei miei beniamini musicali. Ho continuato così per qualche anno, pure dopo che ebbi la mia prima chitarra. Benché il mio primo incontro con la musica (che non fosse solo ascoltarla) fu con una tastierina elettronica Bontempi che aveva un mio amichetto di 9 o 10 anni. Gli appassionati di musica dell’età aurea del Rock (all’incirca da metà dei Sessanta a metà Settanta) conoscono perlomeno nominalmente il gruppo Gong.
Molti tramite la cosiddetta trilogia Radio Gnome Invisible pubblicata nel biennio ‘73-’74, comprendente Flying Teapot, Angel’s Egg e You. Daevid Allen, chitarrista (occasionalmente bassista), cantante e compositore, li fondò (insieme alla cantante e autrice Gilli Smiyth) subito dopo esser fuoriuscito da nucleo originario dei Soft Machine (senza esser presente nel loro album di esordio del 1968). Chi ha l’adolescenza parecchio alle spalle lo sa bene, di quel periodo rammentiamo nostalgicamente alcune esperienze, anche piccole, di apparente insignificanza, ma che per qualche motivo ci portiamo dentro e che a volte riaffiorano in modo prepotente.
Spesso sono legate alla musica; d’altronde non è da oggi che la musica permea in modo quasi invasivo le vite di tutti noi. Dei nostri cinque sensi la vista e l’udito sono quelli che associamo più facilmente e potentemente a ciò che ci accade, soprattutto in termini mnemonici. L’olfatto, il tatto e il gusto molto meno. Nel 1987 Wynton Marsalis pubblica il disco Standard Time Vol.1, un’opera che si discosta dalle due precedenti, Black Codes e J Mood (di notevole pregio), in cui non erano presenti standard e lui ne era quasi esclusivamente l’autore.
Qui propone sue interpretazioni di brani della comune “letteratura” jazz. E pure questo disco è di gran rango, a fronte sia degli arrangiamenti sia delle esecuzioni generali; svettano i suoi solismi e quelli del pianista Marcus Roberts (sostituì da J Mood Kenny Kirkland). Oltre a consueti pezzi come Caravan, A Foggy Day e Cherokee, sono presenti anche due sue composizioni: Soon All Will Know e In the Afterglow. Ma è il brano più famoso in assoluto della selezione, Autumn Leaves, che riceve un arrangiamento, nell’esposizione del tema, degno di essere messo in evidenza per la sua peculiarità; al netto della sua estrema velocità. Chop, in inglese “taglio”, nel gergo musicale una frase musicale particolarmente incisiva, di grande effetto.
Di norma sono linee molto rapide impiegate negli assoli, declinate differentemente secondo i generi: più articolate e tensive nel Jazz e Fusion, più aggressive timbricamente e spesso parecchio funamboliche (shredding) nel Rock e dintorni (contemplando pure l’uso di registri assai alti e talvolta device meccanici - leva vibrato - o elettronici). “La musica è un linguaggio, ma con la particolarità che è privo di logica”.
Ieri pomeriggio nella trasmissione RAI di approfondimento culturale Rebus in cui (tra l’altro) gli autori si proponevano di evidenziare i rapporti tra musica e matematica, con ospiti quali Corrado Augias, il maestro Aurelio Canonici e la matematica Elisabetta Strickland, la cosa che più è invece risultata evidente è che le semplificazioni della divulgazione, la rapidità di comunicazione, sovente sono fuorvianti. Far soffermare chi è a digiuno di grammatica musicale a un ascolto pure solo appena più attento e quindi consapevole di ciò che sta accadendo musicalmente, è compito arduo, tuttavia ci proviamo.
E una semplicissima canzone, una hit di sessant’anni fa di due minuti, può far al nostro caso; può far comprendere anche a chi non ha alcuna istruzione musicale come la forma strutturale, il “contenitore” di melodie e accordi (le parti cosiddette introduzione-strofa-ritornello ecc.), divenga, allorquando non è quello solito, un fattore importante. Una decina di anni fa un caro amico mi fece ascoltare la breve canzone Mad World, nella versione di Michael Andrews e cantata da Gary Jules: me ne innamorai immediatamente.
È un brano dell’ottimo gruppo inglese Tears For Fears*, segnatamente composto da Roland Orzabal, originariamente pubblicato nel 1982. L’arrangiamento di Andrews fu pubblicato nel 2001, usato per la colonna sonora del film Donnie Darko. Le due canzoni come melodia, accordi e struttura non presentano diversità, per il resto divergono quasi totalmente. Comunque ebbero tutte e due successo. È cosa risaputa che la musica ha la speciale dimensione del tempo; il suo inesorabile fluire.
E tutti i musicisti, chi in modo più consapevole e dotto, chi meno, chi in modo abilissimo esecutivamente, chi meno, devono tenere in considerazione questo fattore fondamentale, determinante. Certamente per la stragrande maggioranza di chi ascolta ciò è alquanto ineffabile; infatti, al netto di quando si ascolta la musica per ballare (pertanto in maniera utilitaristica ci si sincronizza con la pulsazione* dominante che è appositamente più che palese), sovente si presta attenzione ad altro: melodie, suoni, ecc.; sebbene questo non significhi che i ritmi siano snobbati, no, ma… |
Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Settembre 2024
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