Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

Metheny solista: l'impronta del gigante su presente e futuro

29/2/2024

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Come per la chitarra nessuno strumento ha avuto così tante e diverse declinazioni nei vari generi e stili.
Storicamente, così tanti strumentisti diversi tra loro sia in assoluto sia all’interno di un genere come per i chitarristi non si riscontrano; e ciò che fa più impressione, almeno a me, è nel Jazz.
E non soltanto nell’aspetto più evidente, quello timbrico, ma proprio nel linguaggio.
Ancorché intorno agli anni 2000 si sia delineata una certa direzione nell’improvvisazione: l’influenza solistica di Pat Metheny, che pure prima era fortissima, prevale su tutte.
​Il suo stile, che come per tutti i giganti, è mutato nel tempo (vedremo poi in cosa), è caratterizzato, al netto della sua insita melodicità, da una potente mescolanza tra linee bebop e free. Quindi tendenzialmente molto rapido, impetuoso ma elegante; fraseggio tanto fluido quanto intricato, con qualche squarcio melodico.
A tale sintesi è giunto dopo parecchi anni rispetto al suo bellissimo esordio in trio (marzo 1976), con Jaco Pastorius e Bob Moses: Bright Size Life. 
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​Dopo di esso, la sua speciale attitudine melodica lo ha portato, sia nel Pat Metheny Group sia nei suoi interessanti dischi solistici successivi, a privilegiare uno spiccato lirismo e a distaccarsi dal tradizionale chitarrismo jazz, da cui comunque proveniva: oltre a evitare convenzionali fraseggi in stile ortodosso e, ancor più, consumati pattern, aveva un approccio più moderno, più fusion, come d’altronde era la sua musica. Fu una novità perché, sebbene di chiara scuola jazz, non usava alcun clichè, nemmeno timbrico.
Ancorché impiegasse una tradizionale chitarra semiacustica senza alcuna saturazione, la filtrava con effetti (di ritardo); l’esito era un timbro più “liquido” e atmosferico. Anche perché ha sempre teso a smussare l’attacco percussivo proprio della chitarra (soprattutto suonata col plettro), dunque un suono più “fiatistico” mediante anche certune soluzioni articolative (oltre a usare il lato più rotondo del plettro), prediligendo il registro medio-alto.

Una manciata di dischi fino alla svolta del 1980 con 80/81; qui il chitarrista ha chiamato a suonare Charlie Haden (contrabbasso), Jack DeJohnette (batteria), Michael Brecker e Dewey Redman (che si alternano al sax tenore). 
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​La musica è fondamentalmente jazz, ma divisa in due: pezzi venati fortemente di folk americano senza swing e walkin’ con chitarra acustica e temi cantabili, e pezzi intrisi di Ornette Coleman. Ed è qui la svolta: l’approccio al Jazz e al solismo di Metheny imbocca decisamente quella direzione che sarà da qui in poi sempre più perseguita, fondendo il precedente lirismo melodico alle irruenti linee bopfree prima descritte. (Altresì progressivamente negli anni anche il filtraggio timbrico diminuì, rendendo il suono più asciutto.)
Un’importante evidenziazione che rimanda all’incipit di questo testo: Metheny, ancor più della tendenziale discendenza bianca del chitarrismo jazz, proseguendo su quella tracciata principalmente dagli ascendenti degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, Billy Bauer, Jim Hall e Gábor Szabó, ha esigue tracce dell’insito linguaggio blues.
Ciò lo differenzia moltissimo dagli altri colossi della moderna chitarra jazz, che pure hanno avuto molto successo (quindi anche come seguito e influenza su altri chitarristi), come John McLaughlin, John Scofield e Mike Stern*.  
Questi (al netto che diffusamente impiegano timbri saturi) usano bending – ovvero tirano le corde - e scale penta-blues, dunque suoni, tecniche e lessici propri del rock-blues alieni a Metheny.
Tuttavia, a parte qualche sporadico episodio col suono saturo e timido bending, Metheny è stato un pioniere della chitarra sinth, adottata proprio dall’alba degli Ottanta, che gli ha permesso di ottenere quell’allungamento delle note (sustain) che la chitarra satura consente ma quella pulita no: perciò, quell’ulteriore agognato “respiro” che ha sempre voluto infondere al suo fraseggio; non a caso ha usato un timbro simulativo di una tromba.
 
Da ultimo vorrei segnalare un altro suo disco solista pubblicato nel 1984, Rejocing, sorta di continuazione di 80/81, sebbene più breve e vario, sarà poco considerato da lui stesso in quanto non completamente soddisfatto di alcuni brani e suoni della produzione, andando in contrasto col suo mentore discografico dell’epoca, Manfred Eicher dell’ECM**.
In trio con Charlie Haden al basso e Billy Higgin alla batteria, membri del leggendario gruppo dell’epoca rivoluzionaria del free di Coleman, Rejocing è un ulteriore omaggio e avvicinamento a Ornette, che si concreterà nel 1986 col disco Song X . 
​Segnalo i tre pezzi (degli otto che costituiscono il disco) che hanno tratti che precedentemente Metheny aveva poco espresso.
La ballata Lonely Woman di Horace Silver che rievoca la davisiana-evansiana Blu in Green: acustico, senza un classico solo; con poetica delicatezza armonizza e tematizza (c’è pure la sovraincisione di un’altra chitarra acustica), anche con armonici.
Il lungo e teso, libero, The Calling, per chitarra sinth, contrabbasso con l’archetto e batteria costantemente come in assolo. (C’è pure, verso la metà, un inserto rumoreggiante generato usando una chitarra elettrica col vibrato.) Un esperimento riuscito.
E il breve e conclusivo Waiting for an Answer, senza batteria, molto suggestivo e d’atmosfera, etereo e spirituale, un po’ classic ambient tra Arvo Pärt e l’Holdsworth dell’intro di Swallow Sea o quello di Material Real, con le sue ascetiche assolvenze armoniche che hanno fatto scuola. Metheny comunque non emula pedissequamente, peraltro non è in solitudine, c’è anche l’archetto di Haden che ancora a terra questa preghiera ultima.

Insomma, l’eredità di questo chitarrista è impressionante, al netto che qualcuno usa timbri differenti, pure un po’ saturi, si ravvisa non solo quel peculiare approccio bopfree con pochissimo blues, ma, anche in chitarristi contemporanei di ottimo rango (Adam Rogers, Kurt Rosenwinkel), nei migliori jazzisti in circolazione, fraseggi direttamente mutuati da lui. L’ascendente metheniano nel chitarrismo jazz è diffusissimo.


* Solo Allan Holdsworth è meno bluesy di Metheny, ma lui non ha frequentato esplicitamente e costantemente il Jazz. Bill Frisell è un po’ caso a parte, per motivi diversi, giacché pur avendo frequentato parecchio il Jazz è il chitarrista più “rock” di tutti, pure perché quello che più ha manipolato i suoni elettronicamente. A metà tra questi John Abercrombie.
** Quello stesso anno pubblicò col PMG l’ultimo disco per questa etichetta, First Circle.


Pat Metheny è uno dei protagonisti del libro 📙 Eroi elettrici - I grandi solisti della chitarra
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    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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