Castello di Carimate, dintorni di Como, autunno 1979, si sta registrando il terzo disco del giovane ed emergente cantautore napoletano Pino Daniele, quello che lo proietterà nell’empireo della musica italiana: Nero A Metà. I dischi immediatamente successivi eleveranno Daniele ancor più, confermando che non solo è nata una stella, ma che splende sicura come quella polare; allo zenith. Il disco è intriso di qualità a tutti i livelli; sarà un capolavoro.
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Siamo giunti all’undicesimo volume di Dischi da leggere. Undici, come gli album realizzati durante la loro storia dai Soft Machine: un gruppo-non gruppo, senza un vero e proprio leader con cui identificarsi e dietro il quale schermirsi, un collettivo con un’idea precisa sin dai loro esordi nella provincia inglese.
Tribali e stellari, sogno e realtà, ambienti claustrali e scenari smisurati, abissi di luci e ombre, il dissolversi di mondi da fughe del tempo… Ecco, i Pink Floyd sembra rappresentino, e non occasionalmente, un futuro primitivismo, talvolta cupo, come i film 2001: Odissea nello Spazio o Il Pianeta delle Scimmie: abitanti narratori di una Terra desolata e devastata, non dominata da esseri umani. Loro, perfetti e convincenti, privi di accademismi e automatismi utili per raggiungere agilità e nettezze sonore, ma che probabilmente sarebbero andate a discapito di quelle manifestazioni naïve che offrono un’impressione di spontaneismo genuino nella finalizzazione espressiva delle loro opere.
Miles Davis qualche mese prima dell’agosto 1969 (in febbraio), per il disco In A Silent Way, aveva cominciato massicciamente a sperimentare soluzioni elettroniche e manipolazioni in post-produzione, sempre con l’aiuto del fidatissimo Teo Macero. In Bitches Brew, quell’esperienza è portata alle estreme conseguenze. E la sua musica davvero si può pregiare di attribuirsi appunto l’aggettivo (all’epoca abusato e forse ancora oggi) di “sperimentale”.
Tratto dal libro 📙 Eroi elettrici - I grandi solisti della chitarra Per vari motivi e circostanze la stima chitarristica di David Gilmour è un po’ sbilanciata: per circa trent’anni parecchio sottovalutato, da una ventina a questa parte un po’ sovrastimato… Un bravissimo chitarrista rock, tra i più completi perché in grado di destreggiarsi con perfetta efficacia nei tanti ruoli che di solito richiede un gruppo rock che non sia meramente immerso nella solidificazione hard, irrigidito nel Metal o conformato nel Pop.
Il musicista statunitense Chick Corea, con già all’attivo vari dischi solisti e collaborazioni di grande rilievo, fonda nel 1972 il superbo gruppo dei Return to Forever. Chiama con sé la straordinaria coppia brasiliana Flora Purim (voce e percussioni) e Airto Moreira (batteria e percussioni), Stanley Clarke (basso) e Joe Farrell (sassofoni e flauto). Nel corso del ’72 pubblica due bellissimi dischi, l’omonimo Return to Forever (che è formalmente accreditato al solo Corea) e Light As a Feather.
Phil Collins, in quanto a stile, è un batterista di evidente stampo europeo; la sua derivazione wyattiana è la più consistente, ma è chiara anche una porzione moerleniana (Pierre Moerlen, batterista dei Gong). Tuttavia, in seguito, dopo la metà dei ’70, il suo batterismo si è proteso più distintamente in due direttrici. Da una parte un muscolare e teso Jazz Rock (soprattutto nella militanza con i Brand X); dall’altra, attento all’efficacia dell’applicazione del groove e al contempo più elegiaco narratore, perciò con sfumature sia come variazioni del riff ritmico sia sonore.
I King Crimson rappresentano uno dei maggiori gruppi rock in quanto a bravura strumentale e creatività compositiva. Un gruppo nobile non solo per il suo nome altisonante, ma per l’effettiva consistenza della loro musica, complessivamente sviluppata nel corso di circa un quarantennio, con l’apice nella prima fase, ossia quella degli anni ’70, segnatamente con i tre dischi del biennio ’73-‘74. Ai King Crimson è associato, più di altri gruppi, una pubblicistica che favorisce miti e leggende e uno zoccolo duro di fan poco preparati ad accogliere la reale proposta del grande Robert Fripp. (Non è dato sapere se questa pubblicistica sia conseguenza del pubblico o viceversa, poco importa...)
Mi è già capitato che, relativamente alla collana Dischi da leggere, venisse mossa l’obiezione all'approccio di analisi dei brani, come esagerata, inutile ecc... Naturalmente così non è; e nessuno è obbligato a sapere e seguire fino al suo massimo livello di approfondimento. I Dischi da leggere sono infatti libri scalabili praticamente a tutti i livelli, da quello più tattico, ovvero cosa accade quasi secondo dopo secondo (con alcuni pentagrammi), a quelli super strategici, con inquadramenti dei vari artisti storici di larghissimo respiro, correlandoli con quello che c’era stato, c’era, e ci sarebbe stato. Finanche qualche riflessione in termini di estetica musicale.
A fronte di alcuni commenti sulla pagina Dischi da leggere, in relazione al breve articolo pubblicato ieri su Martin Barre e i Jethro Tull, è stata evidenziata un’affermazione pubblicata su un libro (peraltro di ottima diffusione), riferito al disco Thick as a Brick. Il recensore scrive che l'album in questione è costituito da “…due facciate di musica senza canzoni, con un riff di flauto che affiora più volte lungo il disco e poco più." Ora, di là dell’opinabilissima opinione tanto ingenerosa quanto poco argomentata sui Jethro Tull da parte dell’autore, nella fattispecie non si può non rilevare che le cose per il disco Thick as a Brick, non stanno così.
Il nome di Martin Barre (Birmingham, 17 novembre 1946) è indissolubilmente legato a uno dei gruppi rock più importanti in assoluto: i Jethro Tull. E Barre è stato un chitarrista prezioso perché è stato un chitarrista rock a tutto tondo, in grado di essere molto efficace in tutte le impegnative parti che svolse. E non solo come chitarrista elettrico di memorabili assoli (acclamatissimo quello sul pezzo Aqualung), ma anche di accompagnamenti con precisi arpeggi, accordi, riff e linee melodiche anche con obbligati e complessi unisoni con altri, il tutto spesso in intricate situazioni musicali sotto molti punti di vista.
A distanza di tempo, con questo decimo volume della collana Dischi da leggere, torniamo ad affrontare l’argomento Pink Floyd, tema già toccato con la pubblicazione, datata febbraio 2015, della monografia dedicata al solo Wish You Were Here (n.6). Sospinti anche dagli ottimi riscontri avuti con il volume precedente, riservato al periodo d’oro dei Genesis, con il quale prendevamo in esame sette album, abbiamo deciso di replicare quella formula e dare nuovamente spazio ad una band che ha innegabilmente segnato un’epoca, consapevoli del fatto che ci saranno ancora tanti libri da scrivere su altri artisti e gruppi importanti per la musica popolare del secolo scorso. Questo numero può essere letto, quindi, come un piccolo passo a ritroso, per recuperare e completare un discorso lasciato in sospeso, e successivamente ripartire verso nuove mete.
Una delle cose che maggiormente spinge ad ascoltare ancora i grandi classici del Rock del passato remoto, ovvero del decennio a cavallo tra i ’60 e i ’70, è che nel passato prossimo e nel presente c’è stato poco o nulla. Un’altra delle conseguenze è la diffusa pratica dei vecchi leoni alle réunion o giù di lì (magari mai ufficialmente sciolti con un paio di dischi pubblicati negli ultimi vent'anni): settantenni più o meno arzilli, che se ne vanno in giro a pestare indefessamente sugli strumenti antiche note.
Love Devotion Surrender dei due chitarristi John McLaughlin e Carlos Santana da quando fu pubblicato (luglio 1973*, registrato autunno '72) è stato un disco controverso, chi lo ha inneggiato e chi ne è rimasto deluso; io sono stato tra quelli più insoddisfatti che entusiasti.
Ma Love Devotion Surrender è un gran disco, e vi dirò perché. Sul numero 83 di Dusk, rivista italiana dedicata interamente ai Genesis, è stata pubblicata la recensione del mio ultimo libro: Genesis 1970-1976. A firmarla è il giornalista e scrittore Donato Zoppo. La riporto integralmente. "Partiamo dal fondo. Dall'appendice, che sviluppa un argomento caro all'autore, spesso impegnato in disamine sui generi nel rock, non tanto terminologiche quanto contenutistiche: la vexata quaestio sul termine e sul concetto di progressive.
Il ruolo e il valore di John Wetton, come bassista elettrico, non sono stai mai compresi appieno. In realtà è un eccellente strumentista oltre che creatore di linee molto belle. Il suo è spesso un efficacissimo apporto perfettamente potente e sensibile, preciso ed espressivo.
Già con i suoi Mogul Trash, nell’ottimo disco omonimo pubblicato nel ‘71, aveva fatto capire che sarebbe stato un altro di quei grandi bassisti rock sull'onda della scuola inglese McCartney/Bruce/Squire; di quelli che, pur rigogliosi come apporti e con “tiro” straordinari, non sono mai sovrabbondanti ma sempre funzionali al brano, casomai compattando il gruppo e non staccandosi individualmente da esso. Questo articolo è estratto dal libro "King Crimson - Red". A proposito di un chitarrista sempre seduto, con gli occhiali da vista e mai una smorfia… Un chitarrista che abbia un approccio alla sperimentazione e manipolazione sonora e uno spiccato senso del “gancio” canzone parificabile a Jimi Hendrix, e al contempo una sapienza teorica musicale con altissime precisioni tecniche analoghe a John McLaughlin, e di questi due paragonabili capacità compositive e di leadership di band, non è una chimera: risponde al nome di sua musicale maestà britannica Robert Fripp. Lui è un chitarrista scienziato, altamente creativo.
Il 2 Febbraio 1976 esce "A Trick of the Tail". Da più parti considerato un disco minore dei Genesis e del Prog in generale, in realtà “A Trick of the Tail” è un'opera di grande pregio.
Tratto dall'introduzione al libro "King Crimson – Red” (amzn.to/1YUgD0Q).
1969 – 1974, sei anni di una dorata epoca per la musica, e per i King Crimson sette dischi che porteranno il gruppo direttamente tra quelli che hanno contribuito a scrivere tra le pagine più importanti della storia del Rock; peraltro quello più contiguo al Jazz. Il testo seguente è tratto dall'introduzione al libro "Deep Purple - In Rock" della collana Dischi da leggere. […] Se è vero come è vero che il Rock nei ‘60 è cresciuto e maturato attraverso una sintesi estremamente creativa tra Rock’n’Roll, Soul/Rhythm & Blues, canzone e ideazioni e manipolazioni di suoni, l’Hard Rock è la sua semplificazione focalizzandone alcuni tratti e radicalizzandoli. L’Hard Rock, per questo, è uno stile e non un genere, e i campioni di questo stile sono i Deep Purple. Più velocità e meno “romanticismo”, meno suoni e timbri ma più aggressivi, meno sequenze di accordi e più riff (ed eventualmente assoli), meno melodie e più ostentazione di abilità, meno ritmi e più martellamento, parti vocali più gridate che modulate finemente. Insomma, meno contenuti e sfumature ma tantissima energia, e i Deep Purple non sono soltanto la quintessenza di questo, sono l’eccellenza dell’Hard Rock.
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Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Settembre 2024
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