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Libro Eroi Elettrici

Love Devotion Surrender, incontro spirituale tra Santana e McLaughlin

26/7/2016

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Love Devotion Surrender dei due chitarristi John McLaughlin e Carlos Santana da quando fu pubblicato (luglio 1973*, registrato autunno '72) è stato un disco controverso, chi lo ha inneggiato e chi ne è rimasto deluso; io sono stato tra quelli più insoddisfatti che entusiasti.
Ma Love Devotion Surrender è un gran disco, e vi dirò perché. 
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I due chitarristi sono accomunati da una precedente esperienza in fatto di dischi in collaborazione, infatti, tutti e due hanno pubblicato un disco ciascuno con Buddy Miles (batterista, autore e cantante, già “socio” di Jimi Hendrix): McLaughlin, Devotion del 1970, interessante disco strumentale un po’ alla Lifetime di Tony Williams di cui era chitarrista (stava prendendo le misure per il fiammeggiante esordio della Mahavishnu Orchestra); e Santana, Carlos Santana & Buddy Miles Live registrato durante un concerto il capodanno del 1972 (un bel disco tirato e sanguigno, prevalentemente strumentale, di rock latineggiante con venature davisiane: insomma grondante carnali groove).
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Love Devotion Surrender è diretto discendente di Devotion e Live, ne condivide pure l'aria da jam session di lusso, però figlio di un genitore diverso, non Hendrix ma Coltrane. Dunque anche in termini di atmosfera è l’altra faccia della medaglia, è spirituale, infuso da due maestri: uno musicale, appunto John Coltrane, l’altro religioso, Sri Chinmoy (il guru cui prima McLaughlin poi Santana, sarà per qualche anno riferimento di vita, poi abiurato). E le due cose naturalmente confluiscono l’una nell’altra. Ma non si pensi Love Devotion Surrender come un disco etereo e impalpabile, non lo è affatto. È innervato di quel sacro fuoco che alimentava Coltrane, sorta di irruenza controllata, di intelligente veemenza che non manifesta uno sfogare istinti bassi, bensì un incanalare energia per elevarsi.

​Cinque brani: tre con una band che comprende organo, basso, batteria e percussioni, e due acustici in duo. I tre con la band lunghi e grintosi, i due acustici brevi e malinconici. Due a firma di Coltrane, “A Love Supreme” (che riprende la prima, “Acknowledgement”, delle quattro parti che compongono la famosissima suite del '65 di Coltrane), e “Naima”; due di McLaughlin, “A Life Divine” e “Meditation”; e un tradizionale gospel arrangiato dai due titolari “Let us Go Into the House of the Lord”.
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Il disco si apre con “A Love Supreme”, ed è come un vulcano che emette lava incandescente, per poi, dopo alcune decine di secondi, lasciare spazio al riff suonato dal basso elettrico di Douglas Rauch: nell’esecuzione e interpretazione ancor più plastico e felino dell’originale suonato dall'ottimo contrabbassista Jimmy Garrison. (Rauch era un magnifico bassista che univa fantasia e agilità degne di un jazzista con potenza e "tiro" di un “funker” nero, e nei tre pezzi ove suona lo ha dimostrato appieno.) Subito appresso le congas di Armando Peraza, il raffinato, mutevole e aereo batterismo di Michael Shrieve, i suoni liquidi e pervasivi di quel genio dell’Hammond che risponde al nome di Larry Young, arpeggi alla 12 corde elettrica del britannico e due accordi di chitarra ritmica del messicano. Segue tema esposto dall’organo; piccola transizione, poi una serie di duetti dei due leader (Santana a sinistra McLaughlin a destra) tanto espressivi quanto pregni di frasi originali che sia nel Rock sia nel Jazz non si erano mai ascoltati. E mai più si ascolteranno. A circa cinque minuti i duetti terminano e lasciano il posto alle meravigliose evoluzioni dell’Hammond e al cantato che intona le parole a love supreme e che ricalca la linea del riff di basso (con variazioni sul tema), e lentamente il brano si dissolve. Un eccellente arrangiamento, una brillante versione di un brano che era già allora venerato e poco affrontato. Da rilevare che la modalità d’impianto qui è alzata di un semitono rispetto all’originale: dal FA al FA#.
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Segue “Naima”, moderna e stupenda ballata, qui suonata da due chitarre acustiche, classiche. La vera peculiarità non è né questa né che la tonalità è abbassata di un semitono né che c’è solo esposta la melodia senza assoli di sorta, ma che la melodia interpretata da Santana si inserisce su armonie più mobili rispetto l’originale del '59. McLaughlin “snocciola” accordi senza pedali transizionali che caratterizzavano l'originale. Ne deriva una musica meno moderna, sospesa, ma che acquista volubilità ed espressività, sprigiona un senso di profonda e insopprimibile nostalgia, come di qualcosa che si avverte irrimediabilmente perduto senza averlo interamente avuto. Un particolare umore quasi da notturno debussiano con chitarre zingare. Altra gemma.
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“The Life Divine” principia con un semplicissimo accordo tenuto di organo, poi il terragno propulsare della batteria di Cobham che marca un potente e serrato ritmo in 4/4 terzinato (peraltro ha un suono tipicamente jazz); succede un arpeggio discendente della 12 corde elettrica punteggiato da un trillo velocissimo e sincopato del basso che segue la linea scalare discendente (MIb minore), poco dopo ruotano intorno alla tonica (MIb) della scala prescelta ed entra la solista di Santana. Seguono, dopo due misure, le voci (si riconosce come prima quella di Carlos) che similarmente al brano A Love Supreme intonano poche note in “contrasto” all’assolo.  E inizia un breve ma intenso vortice di melodie, ritmi, sequenze accordi: seppur con suoni poco aggressivi, si genera un governato furore. Dopo poco le voci sfumano e il basso suona la loro linea, viene interpolato con la progressione di accordi. Si avvicendano queste due fasi, fino al placarsi intorno a 4’35” dove Santana abbandona il proscenio a favore di McLaughlin, la temperatura rapidamente risale, con il basso che strappa le corde, le tira in bending, suona note in ottave... I due assoli sono molto differenti: quello del messicano alterna momenti melodici ad altri ritmici, il britannico molto più lineare si basa sull’aggressività fornita dal poderoso tocco in velocità di frasi scalari con un lessico più ellittico e originale e qualche nota acuta urlata. Poco prima degli otto minuti rientrano le voci, l’arpeggio della 12 corde, finisce l’assolo di McLaughlin, con Cobham che fraseggia incisivamente, ed emergono pure le indiavolate percussioni prima un po' soffocate nel magma sonico; tutto, a poco a poco, si placa e si dissolve. (Di James Mingo Lewis, accreditato alle percussioni, si fatica ad apprezzare il suo apporto: in tutti e tre i brani è praticamente inudibile.)
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Originariamente la prima parte del disco si concludeva così; riprendendo con i circa 16 minuti di “Let us Go Into the House of the Lord”: il pezzo più debole dell’album. Qui ci sono due batterie, una principale l’altra di rinforzo, suonate da Don Alias e Jan Hammer (presumibilmente il primo è collocato al centro-dx e il secondo al centro-sx). Immediatamente al proscenio e protagonista della lunghissima introduzione (tre minuti!) è John che indemoniato alla solista inanella una serie di veloci fraseggi su un tappeto sospensivo suonato da tutti. All’inizio soltanto due accordi (RE e LA), il chitarrista accenna il motivo (50”), che riprende e sviluppa a 1’41”, ma con gli accordi suonati da Santana e Young che cambiano e modulano, trasportando il pezzo in altri aree musicali... Si arriva al break con le congas di Peraza che suonano un rapido pattern ritmico, ancora gli stessi due accordi, il basso suona una parte che lega tutto e tutti con il ritmo di rumba flamenca, però la grande rapidità e le percussioni ci portano più in Brasile: un particolare  stile di Samba chiamato Baiao. Dunque siamo in un rapido tempo di 2/4, entra Carlos, melodico; sono presenti gli accordi di John con la 12 corde sulla sx, la batteria (centro dx) si limita a scandire il battito sul piatto, a mano a mano s’insinua e distende. Il pezzo decolla, Santana si produce in un lungo e notevole assolo, ogni tanto si sentono gli interventi dell’altra batteria, anche questa in crescendo: prima solo piatto, poi anche su rullante ecc.). Si arriva così fino al cambio di testimone con John per il solo (6’30”), percussioni e batterie salgono un po’ d’intensità, e il britannico di velocità… ma è solo un breve ponte per l’assolo di Hammond di Young. La fase è leggermente differente, più di transizione, meno galoppante, e in sostanza si è armonicamente statici (sul LA). Poco dopo i nove minuti riprende vigoroso più che mai John, e a mano a mano pure la galoppata, fino al duetto con Carlos prima della Coda (13’26”) che è simile all’Intro, ma con la partecipazione dell’altra chitarra in duetto, tramontando dolcemente. (Santana ha riproposto alcune parti del suo assolo inserendole nel brano Samba Pa Ti registrato dal vivo in Giappone nel luglio '73 per il triplo Lotus.)
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Il disco si conclude con “Meditation”, per pianoforte e chitarra classica; ancora notturna malinconia. Inizia in assolvenza con un accordo di Hammond, che poi scompare per riemergere appena per la Coda, lasciando il pianoforte ad accompagnare la dolente melodia esposta dalla chitarra classica, interagendo. Dolente ma non piagnucolante, la melodia ha vigore e slancio, con un andamento del tempo asimmetrico e ondivago (ci sono qua e là alcune misure in 3/4 e 2/4 in aggiunta al 4/4 base). Pochissimi accordi in SI minore frigio (con una breve modulazione in FA lidio), e la melodia, dopo le prime cinque note in registro medio-basso, si dilata in una progressione ascendente: ogni suo segmento è frutto di una traslazione sulla scala con la distanza tra le prime due note iniziali sempre più ampia; inesorabile salita… solo nel finale ripiega un po’ su stessa, torna un po’ indietro, e le ultime cinque note sono le stesse delle prime cinque ma nell’ottava superiore: emana dignità nella mestizia espressa. 
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Love Devotion Surrender può essere opera deludente per chi si aspetta specie di impresa addensante energie e idee dei rispettivi superbi gruppi di Santana band e The Mahavishnu Orchestra; ma questo è un lavoro intimo dei leader di quei gruppi, divenuti quasi dei fratelli spirituali in nome di una musica che trascendesse le loro realtà fino allora conseguite con le rispettive band, per aprirsi a nuove esperienze aderenti ma non emulanti la grande lezione di John Coltrane e percorrere nuove vie: è confratello delle precedenti vicende con Buddy Miles. Rimane ancor oggi un disco pressoché unico, con duetti chitarristici molto intensi e di gran qualità, che fanno peraltro fede a quello che il Novecento ha portato come novità con il Blues e il Jazz (e pertanto il Rock), ovvero una conduzione del suono che non sia più quella accademicamente asettica con pochissime e preconfezionate variabili nella sua pronuncia, ma quella che trasuda qualitativa differenza da ogni nota emessa e diversità da persona a persona: ancor oggi è bene non dare per scontata la cosa, considerati gli scarsissimi spessori dei profili musicali che sono emersi in questi oltre quattro decenni che ci separano da LDS.
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Love Devotion Surrender è un disco con luci, ombre e colori di cieli equatoriali: non indugia in crepuscolari chiarori diffusi e persistenti, in mille sfumature, è netto; declina rapidamente da intensi giorni a profonde notti. Se lo si conosce bene suscita sentimenti contrastanti, o lo si ama o lo si detesta.
 
*Questo è il secondo dei tre pubblicati da Carlos Santana in collaborazione con altri artisti, dopo l’esperienza del live con Buddy Miles. Il terzo, del 1974, è Illuminations con Alice Coltrane.
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Le carriere musicali di Santana e McLaughlin sono ampiamente trattate nei miei libri Musica '70 e Eroi Elettrici.
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    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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