Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

Bitches Brew, così Miles governò il caos

30/3/2017

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Miles Davis qualche mese prima dell’agosto 1969 (in febbraio), per il disco In A Silent Way, aveva cominciato massicciamente a sperimentare soluzioni elettroniche e manipolazioni in post-produzione, sempre con l’aiuto del fidatissimo Teo Macero.
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In Bitches Brew, quell’esperienza è portata alle estreme conseguenze. E la sua musica davvero si può pregiare di attribuirsi appunto l’aggettivo (all’epoca abusato e forse ancora oggi) di “sperimentale”. 
Il modello concreto di Bitches Brew è focalizzato sulla manipolazione del collettivo orchestrale, di una musica che deve scaturire più possibile spontanea e in quel preciso momento, quindi con potenzialità sonore caleidoscopiche da governare però anche in momenti successivi; una musica dove l’autonomia (entro precisi schemi chiari solo a loro e non a noi) è primaria ma inserita in una prospettiva collaborativa.
​In questo quadro l’integrazione di tutti i suoni offerti da tutti è il risultato di una responsabilità creativa condivisa e successivamente assemblata dal compositore, non è una casualità incosciente.

Bitches Brew è un album doppio: il primo è il momento della creazione, i primordi, la notte tensiva perché cieca, appena stemperata talvolta da un’aurorale e diffusa luce livida e blu; il secondo è la primigenia coscienza, l’indugio dell’alba e poi il mattino dorato, pregno di attese, curiosità, piccole sorprese e piccole conquiste.

​Nel primo disco sembra che tutti vadano per conto proprio disordinatamente e Davis accumula e organizza il materiale per rendere questo magma sonico vagamente coerente tramite delle ricorrenze dilatate nel tempo e nello spazio: è quel brulicare da formicaio operoso apparentemente senza guida né scopo che invece offre il terreno adatto alle intelaiature più eterogenee e fantasiose.
Nei due brani del primo disco (Pharaoh's Dance e Bitches Brew) lo stregone ha deciso di sottrarre dal rumore ammassato solo quelle frequenze e impulsi di cui aveva bisogno per ottenere un evento-oggetto che sembri astratto, che ha pochissimi schemi interni e nemmeno quasi perimetri esterni: i brani durano tantissimo e sono resi circolari anche dalle ripetizioni di macro sezioni tagliate e incollate. Potrebbero durare per sempre perché non hanno tempo, solo spazio. 
Davis è riuscito a fare musica (apparentemente) con pochissimi elementi estratti dal caos: questa è la magia bianca dello stregone nero, e per far ciò esortava i suoi accoliti a dimenticare tutto quello che sapevano, in una liturgia al contrario che serve non a impiegare la sapienza in maniera costruttiva, ma in un esorcismo di questa, per creare dal nulla con la perfetta libertà di fantasticare che hanno solo i bambini che ancora non sanno. Musicisti eccezionali che sono costretti a sembrare quasi dei dilettanti che provano. Il collettivo, solo perché disciplinato da qualcuno o qualcosa nelle linee guida generali, offre una sensazione di compattezza organica a prescindere se all’interno ci sono dei disordini: questo è anche ciò che Miles Davis e Teo Macero hanno realizzato.

l secondo disco è più convenzionale: è l’esito del naturale processo additivo musicale che parte dal silenzio, seppur minimale e poco incline alle forme più ortodosse, tutti vanno insieme per un fine piuttosto chiaro. Nel caso dei tre brani del secondo disco (Spanish Key, John McLaughlin, Miles Runs the Voodoo Down) se non fossero suonati da musicisti così eccezionali, saremmo di fronte a ipnotiche forme semi-libere di semi-improvvisazioni collettive, basate su pochissimi elementi e perciò primitive, un po’pretestuose e fine a se stesse (che già i rocker stavano sperimentando). Il quarto e ultimo brano, il bellissimo Sanctuary di Shorter è un pezzo di musica a sé stante che si basa su una dolente melodia cantata dalla tromba e poi dal sax, armonizzata meravigliosamente dal piano elettrico di Corea: ma è musica che poteva stare nei dischi di Miles precedenti di qualche anno. Ovviamente il suono elettrico del piano e gli apporti delle percussioni fanno la differenza.
Quest’altra faccia della medaglia di Bitches Brew ha agganci che mettono in sicurezza tutti, pure l’ascoltatore che “finalmente” riesce a gustare un ritmo e un assolo che ha una piccola storia da raccontare; si percepisce un periodare che si articola su una pulsazione vera e propria: il tempo è concreto, si può toccare, è terragno, è addirittura quasi funky, e tutti si adeguano, pure il capo. 

L'analisi del capolavoro Bitches Brew è inclusa nel mio libro Dischi da leggere - Collezione n.1.
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    Carlo Pasceri
    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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