Nei Settanta, con suoi gruppi o aderendo ai tantissimi progetti altrui, solitamente di altissimo rango, ha contribuito, contemporaneamente a Tony Williams e Billy Cobham, a innovare e quindi a sviluppare il linguaggio batteristico. Ma a differenza degli altri due DeJohnette nei decenni appresso ha continuato a sperimentare generi e stili e soluzioni batteristiche.
Dunque, oltre a essere uno di quei pochi batteristi che sanno sia disegnare tempi e groove sia pitturare con cangianti colori sonici, mostrando sia scioltezza e sfumature sia incisività propulsiva, DeJohnette ha l’istinto di reagire a ciò che ascolta come se suonasse melodie polifoniche (e quindi suscitare biunivocamente reazioni degli altri musicisti). Il risultato è una sorta di multidimensionalità ritmica a volte implicita altre esplicita, con la scansione temporale fluttuante per il costante dialogo che egli intreccia, mediante tutti gli elementi della batteria, con le parti musicali degli altri strumentisti, disclocando il fondamentale beat di pulsazione tra cassa-rullante-piatto-charleston-tom.
Quindi mai vincolato a una condizione di equilibrio immodificabile esprime la più alta complessità organica, riuscendo a mantenere una permanente consistenza ritmico-temporale e timbrica pur nell’incessante scambio di “segnali” con l’“ambiente” circostante. Stabilisce musicalmente un sistema aperto: l’ideale nel Jazz.
Una delle conseguenze di simile varietà ed eterogeneità nei contenuti e nella forma del suonare è che si aumentano i rischi della pericolosa condizione artistica in cui il jazzista di solito versa, ovvero l’oscillazione un po’ neutralizzante tra il vocazionale spirito di trasformazione continua e la necessità di definirsi per avere uno stile ed essere facilmente riconoscibile.
DeJohnette non è al primo ascolto così facilmente individuabile, non ha così tanti lick e pattern o suoni particolari e quindi specifiche soluzioni ricorrenti come altri batteristi; paradossalmente oggi, anche considerato la grande influenza che ha avuto sulla moderna batteria di stampo jazzistico, lo si può riconoscere più per esclusione di altri che direttamente per il suo suonato.
A dispetto della sua enorme attività in dischi e concerti la qualità non è mai scesa sotto all’ottimo, pertanto si può pescare con agio dal mucchio di dischi ove rintracciare più facilmente la sua arte.
Noi oggi per gli anni 60 scegliamo il suo The DeJohnette Complex, per i 70 (oltre quelli con Miles) Timeless e Gateway, per gli 80 il bellissimo Special Edition del suo gruppo omonimo e Standards, vol 1 di Keith Jarrett e Michael Brecker; per i 90 a suo nome Parallel Realities (anche il Live) e The New Standard di Hancock. Tra le cose più recenti (2009) Music We Are in trio con John Patitucci e Danilo Peraz.
Ma domani potremmo dirne di altri, e dopodomani di altri ancora, sicuri di fare a chi legge comunque un buon servizio.
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