Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

Van Halen, primo guitar hero dell'era "moderna"

26/1/2017

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Tratto dal libro 📙 Eroi elettrici - I grandi solisti della chitarra
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Eddie Van Halen è sempre stato considerato il chitarrista che ha traghettato la chitarra rock dalla vecchia terra alla nuova, l’unico dopo Hendrix che sia riuscito a imprimere un’accelerazione, anche nel senso letterale del termine, alla crescita e maturazione del neorocker. 
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In effetti l’arrivo improvviso e tumultuoso di Eddie nel 1978 con il primo LP dei Van Halen ha dato veramente uno scossone al vetusto e inaridito circo rock. 
Hendrix se ne era andato da molti anni, Jimmy Page con i suoi Led Zeppelin e Ritchie Blackmore con i Deep Purple avevano praticamente gettato la spugna, Eric Clapton, dai tempi dei Cream, non suonava in maniera appena dignitosa, Jeff Beck, seppur sempre brillante, è stato un po’ latitante in senso artistico (dischi e concerti), Carlos Santana era un po’ in crisi, lacerato da tentazioni commerciali, David Gilmour dei Pink Floyd, non era allora compreso nella lista degli eroi e Frank Zappa, a torto, è stato sempre considerato un grande compositore ma non altrettanto grande come chitarrista. Insomma tutti i più famosi chitarristi rock erano più o meno fuori gioco! Questo significa che Van Halen ha avuto fortuna? Forse, ma non solo; indaghiamo un po’.
 
Diverse cose ne hanno determinato la rapidissima ascesa: il periodo storico appena accennato, le capacità tecniche, l’abilità nel renderle musicali, la nuova immagine di guitar hero non più tenebroso, esoterico, contorto e perennemente incazzato con il mondo, ma fresco, semplice e spontaneo. E i suoni inusitati ed estremi, le linee fluidissime le urla e i fischi che Van Halen già dal primo disco aveva tirato fuori da una comune chitarra elettrica, furono oggetto, prima di stupore e curiosità, poi di forsennati tentativi di emulazione, quindi innalzati a nuovi parametri di giudizio per i neorockers.
 
Gli elementi tecnici innovativi introdotti da Van Halen furono vari e devastanti per la vergine mano destra e per le innocenti chitarre: oggi tutti i chitarristi e non solo rock, conoscono e applicano il famigerato tapping, che è stato ispirato a Eddie dall’ascolto di “Heartbreaker” dei Led Zeppelin, e dal suo conseguente tentativo (riuscito) di riprodurlo, il tapping è quindi diventato nel giro di alcuni anni patrimonio tecnico comune; prima acclamato poi studiato e sfruttato, per alcuni è diventato il principale modo di suonare e da molti anni dato quasi per scontato.
 
Anche la leva del vibrato è stata resa popolare dalle gesta di Eddie: fino ad allora era stata piuttosto ignorata, lo stesso Beck ci si era appena avvicinato, (poi negli anni '80 l’ha usata pesantemente), solo Hendrix e Blackmore l’avevano un po’ sfruttata, ma comunque mai in maniera sistematica e massiccia tanto da farla diventare una nuova frontiera tecnica su cui misurarsi. L’impatto è stato così devastante che addirittura l’industria si mise in moto: la prima chitarra (su disco) di Eddie è stata una strato customizzata con un P.A.F. humbucker al ponte e la leva fender che ovviamente, “causa maltrattamenti”, spesso non era affidabile come resistenza strutturale e accordatura. Il risultato di ciò fu che nel volgere di poco tempo sono nati vari tipi di ponti con leve come Khaler, Shaller, Floyd Rose (in diretta collaborazione con Van Halen) che permettevano una maggiore escursione tonale e tenuta dell’accordatura.
Andando ad analizzare il suo lavoro si può notare che ha nei suoi soli una predisposizione per le linee flash e mozzafiato: quando Eddie parte con il solo si ha l’impressione di un vulcano che erutta! Si ha la netta sensazione che le tante idee che gli vengono in mente, voglia metterle in pratica tutte insieme e al momento. Infatti l’architettura dei suoi soli è bizzarra: raramente rispondono ai dettami più classici e cioè introduzione, sviluppo e chiusura, con una parabola di climax sempre crescente, ma si affastellano fischi, botti e ruggiti insieme a scale fluide e velocissime senza un apparente legame, in realtà il suo stile a frasi brevi di una o due battute, pur non avendo un evidente contatto con la tradizione blues, è quasi sempre nella logica della domanda e risposta tipica del blues; vere tendenze bluesy le ha avute nel terzo disco (“Women and children first”) dove si è cimentato addirittura con lo slide, anche se tracce esplicite le possiamo notare già nel primo disco nel brano “Ice cream man”.
 
Si badi bene che a parte eccezioni, Van Halen suona canzoni, dure quanto vi pare ma sempre canzoni e R&R, e se non fosse supportato da vero talento, quel suo modo frastagliato di suonare, tendente al siparietto, lo avrebbe portato facilmente ad essere controproducente per l’economia della canzone e quindi del gruppo.
 
Van Halen ha sempre dichiarato che lui le parti di chitarra le registra live, cosa rarissima soprattutto di questi tempi. Eddie si stupisce quando le persone si sconcertano per le sue metodologie in registrazione, ma d’altronde lui è forse l’ultimo grande rocker a suonare così “live”, cosa invece fondamentale per saper reagire alle vicende musicali che si susseguono in un gruppo: lavorare insieme ad altri musicisti in tempo reale (cantina o sala) è una importantissima palestra che fa i muscoli e le ossa e fa in modo che il chitarrista sviluppi la maniera giusta di interagire e accompagnare (cosa spesso trascurata, ma non da EVH che è brillante anche in questo), restituendoci così il suo valore esecutivo più reale e meno virtuale.
 
A Van Halen si può rimproverare quella piccola incoerenza che è la riproduzione piuttosto fedele dal vivo di ciò che è stato frutto di estemporaneità in studio e anche un’oggettiva povertà melodica che a parte qualche rara occasione (“Love walks in”, “Ain’t talkin’ about love”), è evidente nei suoi soli. Ma questo si può tranquillamente perdonare a chi ci ha dato tanto. 
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Tratto dal libro 📙 Eroi elettrici - I grandi solisti della chitarra
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    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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