Però a Mingus arriviamoci per brevi tappe della sua carriera.
Già col terzo disco del 1970 Ladies Of The Canyon e ancor più col successivo Blue (’71) la Mitchell si poneva su quella spumeggiante onda di “progressive” folk-rock* capeggiata da Crosby e i suoi tre amici (Stills, Nash e Young), seguiti da James Taylor, Carole King e Laura Nyro (la più jazzy e quindi “metropolitana” e meno folk di tutti). E dall’altra parte dell’oceano si aggiunse l’inglese Joan Armatrading, altra eccellente artista di questa meravigliosa ondata di caleidoscopica musica al femminile (debutto discografico nel 1972).
La Mitchell proseguì nel ’72 con l’ottimo For the Roses, ed ecco che comincia a concretare un percorso più jazzy e pubblica nel gennaio del ’74 Court and Spark, facendosi accompagnare da musicisti di grande qualità provenienti dalla neonata area fusion come Joe Sample e Wilton Felder (metà dei Crusaders), Larry Carlton, John Guerin e Chuck Findley.
Poi è la volta del live Miles of Aisles (registrato ‘74, pubblicato ‘75) accompagnata dai L.A. Express, band fusion di Tom Scott (in cui militava il giovane Robben Ford), ove la Mitchell ripresenta parecchi pezzi dei primi dischi.
Ed eccoci giunti al 1979 con Mingus. Molte le particolarità di questo disco, sia formali che di sostanza.
Si tratta di solo sei brani, a questi sono alternati cinque brevi frammenti di dialoghi di Mingus con moglie e amici e un duetto di Joni con Charles. La Mitchell è l’autrice di tutti i testi e delle musiche di due. La gestazione fu lunga e laboriosa (con tutt’altri musicisti), pure con qualche disappunto di Mingus per la troppa elettricità che la Mitchell inseguiva. Tuttavia alla fine ha approvato tutti i pezzi, tranne God Must Be a Boogie Man che è stato scritto due giorni dopo la morte del grande jazzista.
Il disco a livello sonico è alquanto semplice, parecchio focalizzato: voce e chitarra, piano elettrico (Herbie Hancock), sax soprano (Wayne Shorter), basso (Jaco Pastorius) batteria (Peter Erskine) e percussioni (Don Alias ed Emil Richards). Gli strumenti mai tutti presenti.
The Wolf That Lives in Lindsey è più particolare: lungo brano di voce e chitarra più, qua e là, congas (e ululati). Ampia melodia interpolata da interventi quasi molesti della chitarra che, con insistita violenza, strappa una nota bassa, dall’oscillante intonazione (sesta corda "allentata" addirittura fino al Do), alternata con armonici naturali.
Tutt’altra cosa A Chair in the Sky; brano medio lento col quartetto jazz, Hancock, Shorter, Pastorius ed Erskine. Complesse armonie e melodie, con Shorter che contrappunta nella tessitura medio-alta e Pastorius quella medio-bassa.
Storia piuttosto simile per Sweet Sucker Dance, poi diviene più ritmica e veloce, a tratti swing; termina con una coda su un ostinato di basso, quasi a voler finalmente ancorare l’ascoltatore che fino allora aveva parecchio vagato, probabilmente perdendosi.
The Dry Cleaner From DesMoines è un saltellante blues con tanto di sezione fiati (arrangiata da Pastorius). Confortevoli percorsi arciconosciuti.
Il disco si chiude con la magnifica ballata Goodbye Pork Pie Hat. Ancora schierato l’incantevole quartetto: superba la Mitchell, con Pastorius coprotagonista, che fornisce una stupenda esposizione melodica che peraltro si estende oltre al tema, cantando anche la prima, lunga, parte del bellissimo assolo di sax tenore presente nell’originale del 1959. La Mitchell qui come cantante si è superata, e ci ha donato una preziosa versione di questo immortale brano di Mingus.
*Una particolare fusione tra la matrice basilare folk-rock ed elementi jazzy e classicheggianti.