Quando si mettono insieme per il disco siamo tra il 1968 e il ’69, in piena epoca di peace & love, e dei gruppi, dei grandiosi raduni (Monterey da poco compiuto e Woodstock sta per giungere…). Loro già delle notevoli esperienze alle spalle, praticamente un supergruppo.
La missione era proseguire l’importante e bellissima esperienza dei Byrds e Buffalo Springfield, oltre gli inglesi Hollies, pertanto potenzialmente essere già ben oltre Bob Dylan, Jefferson Airplane e Simon & Garfunkel, tanto per citare tre totem dell’epoca. Ci riuscirono, per poco tempo, andarono ben oltre….
Una garbata (e non sempre presente) ritmica di basso e batteria con qua e là un organo appena accennato fanno da cornice e colore alla loro musica del debutto, che tanto ha influenzato anche famosissimi gruppi molto lontani dal loro stile, anzi, di altro genere, come i Led Zeppelin e i Genesis.
Qualcuno ha affermato che il lavoro di un uomo è il lento viaggio alla ricerca, mediante l’arte, di quelle due o tre immagini che per prime hanno aperto il cuore.
E la potente reminiscenza che loro mi suscitano, con la tanto rapida quanto inesorabile e pervasiva nostalgia che rimescola tutto, scalda il cuore; ma allo stesso tempo mi intima di tenere fresca la mente e non esagerare con iperboli. E quindi, che sia chiaro, dei dieci brani uno è semplicemente fuoriclasse: Guinnevere.
Un capolavoro tra i capolavori. Una romantica canzone che meriterebbe da sola un’accurata disamina...
Comunque, manifesta eterogeneità già nel primo brano Suite: Judy Blue Eyes.
C’è un po’ di tutto, inizia bluesy, rapido, subito prosegue più “canzone”; poi a 2’50” metà tempo e più marcato ritmicamente e melodicamente, più modale. Dopo un paio di minuti solo qualche percussione e chitarre, accenno assolo di chitarra acustica, atmosfera esotica, orientale. Ancora interventi di cantato corale e poi finale con mischiato motivo melodico saltellante a più voci e una che si stacca e si sovrappone con declinazione latino-messicana (sorta di parafrasi di La Bamba).
Il disco si conclude con l’eccentrico valzerino 49 Bye-Byes; un continuo avvicendamento con le rettilinee e più grintose parti in 4/4, ma accade sempre in modo così scorrevole che quasi non ce ne si accorge. E gradualmente tutto diventa più denso, si inacidisce un po’, e con variazioni e varianti aumenta il suo peso, distribuendolo in 4/4; termina in valzer quasi improvvisamente su una nota in feedback.
E se in Europa per andare oltre una canzone di protesta/pace e amore su tre accordi strimpellati su una chitarra, si attinse soprattutto alla Classica, negli USA considerarono la loro giovanissima e in divenire tradizione, al Jazz. Per motivi di possibilità di accesso e di simbologia, si riferirono a quello modale, segnatamente a John Coltrane.
Jefferson Airplane, Grateful Dead, Santana e Allman Brother Band, citando alcuni tra i più famosi statunitensi, hanno in quel tempo compiuto ciò, Crosby e Stills, prima separatamente e poi insieme (a Nash e Young), hanno fornito un pregevolissimo contributo al Rock a fronte della loro capacità di sommarsi: nessun altro gruppo univa raffinate canzoni (che erano già oltre il folk/rock-blues) con digressioni para jazzistiche e sontuose polifonie corali; e questo disco è il primo capitolo di una breve ma splendida storia.