Correva l’anno 1985 ed ero un giovane che stava studiando musica, appassionato di Jazz-Rock, che si stava avvicinando alla Fusion per modernizzarsi. D’altronde il Rock col quale avevo iniziato a entusiasmarmi per la musica fu subito affiancato dai Return to Forever, Mahavishnu Orchestra, Weather Report… Mi interessava soprattutto la musica strumentale, pertanto pure il Rock più alto e avanzato lo sentivo costringente; figuriamoci il Pop (o Pop-rock).
Intanto dovevo superare il trauma di essere strappato dalla mia vita normale, familiare, dalla ragazza di cui ero innamorato da anni, per essere catapultato in una realtà del tutto aliena, molto difficile e impegnativa; prima a Como, poi a Verona.
E intanto ascoltavo pure il Pop, ascoltavo anche i Prefab Sprout. Era una sorta di consolazione, di straniamento dalla realtà, di scenario in cui mi muovevo in modo quasi romantico per alleviare le tante difficoltà. Mi piaceva tanto quel disco, anche più di molti altri bravi e giovani musicisti, soprattutto inglesi, che si stavano facendo strada.
La Fusion e il Jazz-Rock li ascoltavo sì per piacere, ma anche perché volevo moltissimo imparare a comporre ed eseguire quelle cose: non avevano quell’effetto taumaturgico-romantico, elementare, che a quell’età si cerca per immergersi e lasciarsi travolgere e stravolgere, vivendo emozioni nuove e fortissime, sentendosi un po’ eroi esistenziali.
Anche solo osservare l’immagine della copertina di Steve McQueen tutt’oggi mi provoca un’insopprimibile nostalgia; riascoltando quei pezzi, come capiterebbe a tutti, mi fa tornare indietro nel tempo: ho per loro un malinconico e grato affetto.
Scopersi dopo, molto dopo, che i Prefab Sprout avevano pubblicato l’anno precedente il loro disco di esordio, Swoon, e nemmeno lo ascoltai subito, tanto ero preso dall'avviare il mestiere di musicista, quindi lo snobbai. Ma poi lo feci, e la mia considerazione per loro andò oltre il sentimentalismo.
I fratelli Paddy e Martin McAloon insieme con Wendy Smith è il nucleo del gruppo, tutti cantano, però è Paddy l’anima, essendo l’unico compositore; nel disco non è specificato chi suoni cosa e dove, fuorché la batteria a cura esclusiva di Graham Lant.
Sarà perché il primo, sarà quindi che avevano in cantiere già tante idee, questo disco si distingue parecchio dal Pop dell’epoca, anche britannico pertanto più “sperimentale” di quello statunitense; in parte pure da Steve McQueen.
Ambizioso nel mettersi nel solco della grande tradizione del songwriting, partendo, pur con i loro parecchi limiti, da quella più nobile dei tanti decenni precedenti, Kurt Weil e George Gershwin, per giungere a Beatles e Steely Dan, tanto per citarne alcuni; però, e qui la bellezza, senza scimmiottare nessuno.
Il sostrato del musical, quella teatralità assorbita, è restituito in forma minima, non ostentata, elegantemente ordinaria, ciò fa la differenza tra questo disco e tantissimi altri.
Ha contribuito alla riuscitissima ibridazione tra quell’ambire e il “volare bassi” quotidiano, la scelta dei suoni, degli strumenti, giacché sono le volgari chitarre (acustiche elettrificate ed elettriche non distorte) a essere fondamento e portamento musicale, coadiuvate dal pianoforte, di mero supporto marginale, “piccolino”. Qualche suono di rinforzo di sinth e svolazzo di armonica a bocca (Don’t Sing).
Dunque i contenuti sono particolari perché sovente le armonie su cui si basano queste canzoni non attengono alle normali sequenze, sono ellittiche, variano, modulano improvvisamente per tornare rapidamente sulla via abituale; e di conseguenza le melodie.
Un altro punto, sebbene meno importante, sono qua e là le asimmetrie metriche distribuite: ogni tanto, senza esser preconizzabili, misure di 6/4 o dispari (particolare l’intro di Cruel), o da quelle inizialmente dispari (3/4 funky di Here On The Eerie) la presenza di qualcuna pari, ciò rende il discorso musicale parecchio meno prevedibile.
Menzione anche al diffuso lavoro preciso e puntuale della ritmica basso e batteria, che esegue in modo fluido e preciso ritmi non banali nel divenire delle canzoni (brillante interazione del basso in Cue Fanfare).
Pure l’uso delle voci non è scontato, la principale maschile è spesso doppiata dalle altre, ove naturalmente quella femminile caratterizza molto le parti. Non sono gli usuali cori di rinforzo qua e là magari nei ritornelli, ma sono spesso in azione, e non di rado a mo’ di risposta alla principale, un po’ come nei gospel.
Notevole pure l’uso in Couldn’t Bear To Be Special, rara canzone, lenta, in cui le chitarre sono state marginalizzate in favore del pianoforte.
Il disco si chiude con Green Isacc (II), sorta di ripresa di Green Isacc (I), meno di 2 minuti, una gemma.
*Soltanto in Here On The Eerie ce n’è uno di pochissime note di chitarra elettrica, del tutto fuori dal comune.