Certamente c’è quello più popular, con declinazioni più semplici, meno arduo, ma in sostanza il discorso non cambia.
In particolare in Miles Smiles ritroviamo il Davis più colemaniano, dal grande sassofonista mutua il concetto di esporre temi rapidi e angolari senza armonie accordali: scarne composizioni basate su contrabbasso e batteria; qualche accordo solo per la waltz-ballad Circle e il blues minore Footprints. Fluente e quasi vorticosa meditazione con pochissime risposte per Circle, e festa carnevalesca con tracce afrocubane per le tante mutazioni metrico-rimiche imposte da Williams al riff in 6/4 di media-alta velocità di Footprints.
Sorrisi aspri: tanta velocità e tensione con Orbits, Dolores e Gingerbread Boy, sono i pezzi colemaniani basati su quasi nulla; solo le loro improvvisazioni melodiche e il marciare di Williams-Carter.
Freedom Jazz Dance è più amichevole, ha dalla sua il ritmo backbeat cassa-rullante quasi rock e qualche accordo durante i soli, che sono meno ellittici del solito. (Questo brano ispirò non poco Ian Carr dei Nucleus.)
Forse lui e i suoi compagni d’arme sorrisero non poco nel pensare alle espressioni facciali di quelli che avrebbero ascoltato queste loro gesta registrate.
Ancora oggi questo disco che compie mezzo secolo è poco accessibile ai più (come la maggior parte dei suoi album di quel periodo): ciò conferma quanto fossero avanti.
L'analisi di due capolavori di Miles Davis (Kind of Blue e Bitches Brew) sono incluse nel libro Dischi da leggere - Collezione n.1.