È un concept album che vede rinverdita la collaborazione di Bowie con Brian Eno: veste i panni del detective Nathan Adler. Palingenesi artistica.
Estetica techno-industrial, poetica cyberpunk-rock; tre o quattro canzoni.
Aggressivo, lugubre “jazz” dell’elettronica. Parossistiche stratificazioni, melmoso sound*.
Oltre il fattore “metallizzante” delle chitarre elettriche (un po’ alla Steve Vai e David Torn) per opera soprattutto di Reeves Gabrels (reminiscenze Tin machine), vi è un elemento di rottura e al contempo di connessione: il pianoforte (Mike Garson) che si inserisce in parecchi brani in maniera quasi schizoide: interventi classico-jazzistici che possono rammentare quelli di Keith Tippett in alcuni pezzi dei King Crimson anni ’70.
Anche una specie di cortocircuito con Trent Reznor dei Nine Inch Nails, considerato che se Bowie ha gettato più di un fugace sguardo verso lui a sua volta Reznor scrutò Bowie.
Musica perlopiù tesa e scura; modale, pertanto centripeta e ossessiva: poche note gravitano senza alcun indugio e ambiguità intorno all’iper magnetica nota fondamentale. La ritualità è aumentata dall’adozione di brevi cicli ritmici, andando così a determinare ancor più martellamento psico-energetico nell’ascoltatore.
Formule sistemiche di così tanto agevole accesso per i musicisti quanto di probabile esito banale, se non si posseggono idee e tecniche sufficienti per scongiurare l’inesorabile monotonia e talvolta l’afasia del discorso musicale, pertanto un sapiente uso dei contrasti sintattico-espressivi.
“Malato” ed estremo fascino ipnotico di The Hearts Filthy Lesson Detective, A Small Plot of Land, Hallo Spaceboy, Ramona A. Stone/I Am With Name, Wishful Beginnings e I'm Deranged.
Torreggia, naturalmente, su tutto e tutti la sua voce. Lui.
*Vista la caratura di Bowie ed Eno è più che plausibile pensare che il generale suono del disco, denso e limaccioso, poco definito, sia esito di una volontà artistica e non di qualsivoglia sorta di errore.