E Trent Reznor di fatto pubblica da tantissimi anni pezzi di musica molto distanti tra loro, da iper aggressivi e urlati a strumentali e minimali, a volte mescolando suoni acustici e sintetici in modo estremo: non di rado fondendo il tutto nella stessa opera.
Predilige comunque la formulazione strumentale, e che sia irruente o più sottovoce in ogni caso è reiterativo, tendendo a mettere gradualmente in evidenza, anche sonicamente, gli aspetti meno tenui ed esasperando quelli più incisivi. In questo modo fa confluire nella sua estetica superfici formali che sono molto divergenti tra loro ma che si saldano fortemente mediante la sua poetica.
E quindi quasi mai la sua musica nel divenire temporale è, pure quando "minima", morfologicamente lieve e sfumata, immediatamente impressionista, ha bisogno di tempo per conseguire l’alterità espressionista, che spesso raggiunge.
Musica centripeta, più profondità che dilatazione centrifuga, non linee prospettiche di estensione orizzonti, ma convergenti traiettorie claustrali.
Il postmoderno polimorfismo di Trent Reznor non rappresenta la negazione o la rottura rispetto alla modernità, anzi, piuttosto la sua più completa realizzazione.
Dischi di riferimento: tra i primi, Pretty Hate Machine (1989), Broken (1992), The Downward Spiral (1994) e The Fragile (1999), tra i più recenti Year Zero (2007) ed Hesitation Marks (2013).