Solo 7 brani.
Blackstar apre il disco, è il più esteso (quasi 10’) ed è quello che fa la differenza, che eleva il tutto… oscura maestà di una gloria notturna offerta dall’eremita, che dal suo ritiro fa brillare le sue pietre preziose. Tutto il tema musicale del disco, del suo ambiente sonico, della sua struttura, è qui compendiato: accumuli post moderni di Rock ma anche di certo Jazz; unione orizzontale di due pezzi musicali differenti. Il resto dei brani è più ortodosso: canzoni rivestite di scurezze, anche per il particolare cantato di Bowie, un po’ lamentoso, vibrante, ripetitivo, spezzettato, e a denti stretti. La prima sezione di Blackstar è veloce, con la batteria di Mark Guiliana mobilissima. Una porzione irrequieta e oscillante, turbata da una tensione mai risolta del tutto, spagnoleggiante e con assoli di Donny McCaslin al sax; la seconda sezione (introdotta a 4’22”) è più distesa, più canzone Rock, ma mai serena anche per un ostinato coretto “I’Am a Blackstar” dislocato ogni tanto e asimmetricamente sui tempi deboli (sincopi), rendendo questo pezzo un po’ instabile. L’effetto è che progressivamente si accumulano ombre… A 6’59” rientra il modulo melodico/armonico della prima parte che tende a saldare la precedente frattura. Infatti, a 7’43” rientra la prima parte ma con altro tempo e ritmo e altri suoni: ora è un flauto che s’inserisce tra la trama aumentata da tastiere-archi, chitarre elettriche. Sinistro Oriente.
‘Tis a Pity She Was a Whore: veloce e “dritto”, semplice nella sua forma, però la melodia del cantato è articolata e una volta esposta, viene lasciato enorme spazio per particolari interventi di vari sax simulatanei, che comunque s’insinuano durante tutto il brano.
Lazarus: rallenta, quasi ortodosso, di base R&B, sempre con sax e altri strumenti che dialogano con Bowie; non un raggio di sole, ma almeno un paio di sorsi di quiete.
Sue; accelerazione, un up-tempo, riff minimale funk stile ’80 con due soli accordi, poi “metallizzato” dalla chitarra elettrica distorta di Ben Monder, cantato a metà velocità, sinuoso, articolato. Elementare, pesante e oscuro, affascinante.
Girl Loves Me: alienata filastrocca a marcetta con apertura medieval-gregoriana. Finale con variazioni ritmiche.
Dollar Days: un po’ come Lazarus porta pacatezza (confrontato al resto), ma è meno legato al R&B, più canzone Pop stile ‘80, con raddoppiamenti e dimezzamenti di velocità, pianoforte (Jason Lindner) e sax protagonisti, sempre un crescendo di masse timbriche, finale vorticoso con chitarra elettrica.
I Can’t Give Everything Away: chiude il disco e sembra canzone sorella alla precedente, ma più semplice, “dritta” e up, ostinata e iterativa, con la chitarra elettrica, armonica a bocca e tastiere-archi; ancora assoli di sax e chitarra.
Canti che sembrano invocazioni. E declamazioni. Blackstar tende alla austerità, poca armonia, poca melodia, l’attrazione magnetica tra le note è molto forte, sono tutte adiacenti, si spostano poco aumentando il potenziale di tensione; è tutto molto grave. Il tessuto musicale del disco è così, con ritmi asimmetrici, un po’ singhiozzanti, e su queste onde agitate il navigatore notturno Bowie con la sua navicella mai getta l’ancora tra un brano e l’altro, nemmeno s’incaglia; poi si procede “alla via” tra un’insenatura dei pezzi e l’altra con l’unica soluzione di una pausa, di un minuscolo silenzio; sempre inquieto. Strati di tempo e di oggetti; e di ricordi: un buon disco di addio… ora che sappiamo che è stato realizzato nel dolore fisico, chissà, un tentativo di ristoro, se non dell’anima e del corpo, almeno dello spirito. Concetto bastardo quello che l’anima è nel nostro cervello, che ci fa pensare e dire e scrivere tutte queste cose. Ora lui è diventato notte, pura tenebra, stella nera; o no; forse è divenuto un altro sole atteso da qualche parte nel futuro, per illuminarlo…