La stupefacente e imprevedibile musica ipermodale di Steve Coleman è data in primis da una clamorosa manipolazione ritmica. Vertiginose sovrapposizioni di lunghi cicli del tutto asimmetrici e dispari, manifestatamente polimetrici, iterati innanzitutto da riff di basso e groove di batteria, sovente incuneati dalla chitarra elettrica, sui quali, a mano a mano, sono edificate piramidi di temi angolari (eseguiti, oltre che dai fiati e tastiere, talvolta anche dalle voci) dal segno neutro, quasi astratto e anti espressivo, ma non in termini esecutivi. Infatti, la condotta tecnico-musicale non è così emotivamente distaccata: loro sì come architetti e ingegneri, che tracciano linee e curve con squadre e compassi, ma lo fanno con passione.
E allora chi suona linee sincopate in 7/4, chi in 5/4, chi in 13/8 e chi più ne ha più ne metta: la musica di Coleman è un congegno di precisione altamente sofisticato, un cronometro meccanico che ha molti rotori con ruote finemente dentate connesse una all’altra per fornire l’inesorabile dato terminale.
Dunque musica altamente cerebrale, non di facile ascolto: gli ipnotici gorghi di note non sono quelli del minimalismo, ma al contrario esiti di una massimizzazione verticale perlopiù stordente poiché molte linee, in maniera energica e rapida, si connettono in complicate e ampie spirali che polifonizzano in maniera piuttosto tensiva.
Il suo ipercostruttivismo formale con le sue composizioni geometrico-numerologiche iperdisciplinate, che ai più sono assai indigeste, ha il contraltare nel mondo rock con alcune cose di Frank Zappa e Gentle Giant; e con la seconda incarnazione dei King Crimson, quella della trilogia dei primi Ottanta.
In ogni caso Coleman non rappresenta un paesaggio gotico medievale, di alte guglie del nord Europa, bensì quello moderno metropolitano: da un lato compatti grattacieli che si stagliano nelle grigie e fumose città e dall’altro di sensuali vie sotterranee ove appartarsi: la natura funky è sempre presente.
Direttamente prosecutori di alcune linee guida della filosofia musicale di Steve Coleman furono nei Novanta i suoi originari collaboratori: Greg Osby, Geri Allen e Cassandra Wilson. Altresì anche il ragguardevole gruppo Lost Tribe (d’altra parte David Gilmore, uno dei due chitarristi, partecipò ad alcuni dischi di Coleman) è da considerarsi una sua parziale proiezione.
Copiosissima la sua discografia come leader, in special modo del gruppo Five Elements, tra i suoi dischi più significativi Black Science (’91); e con M-Base Collective Anatomy of a Groove (’92).
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