Questo disco ha due tematiche di fondo, una più marcata e una più elegiaca.
Quella più marcata comunque non è incisiva, non è trascinante, è solo esplicitamente pulsante, ma in modo indolente. Quella elegiaca non è patetico-lirica, è senza singhiozzi e grida messi in primo piano, solo dolente.
È un disco che, nonostante una sfarzosa produzione con moltissime persone coinvolte (e tecnologie che al tempo erano il top) e i vari stili adottati addirittura con generi sfiorati, ha una indubbia omogeneità.
Ciò è dato da alcuni fattori, tra cui l’adozione delle velocità: da lente a medie, con privilegiate quelle medio-lente, pertanto non ci sono strattoni. Come non ci sono contrasti nemmeno nelle dimensioni dinamiche né in quelle timbriche. È tutto alquanto “medioso”.

La tavolozza timbrica di Pacific Ocean Blue consta molto pianoforte (talvolta piano elettrico), strumenti acustici come fiati e archi, e poche chitarre (acustiche/elettriche)* con ancor meno elettronica tipo sinth ecc. Parti di voci corali ci sono, ma non quelle polifonico-vertiginose strutturanti dei Beach Boys, bensì quelle molto più semplici e ornamentali, compatte e inneggianti tipo gospel.
E per comprendere le polarizzazioni musicali di massima e quindi orientarsi si può pensare a una specie di McCartney in vacanza “southern” con ritmi shuffle-funky alla Crusaders (o Little Feat); il tutto ulteriormente smussato da una diffusa inerzia espressivo-lirica, come di distacco emotivo. Con gli ovvi distinguo e divergenze, addizioni e sottrazioni e quant’altro occorre per affermare che Wilson non è emulo di nessuno.
Dodici brani piuttosto corti, circa tre minuti, qualche cenno di particolarità: l’inserimento in River Song di una frase obliqua a mo’ di reiterato modulo, peraltro asimmetrico, in 9/8; l’aria quasi pinkfloydiana di Friday Night; i sorprendenti “middle-eight” di Dreamer e Thoughts of You (con tanto di voci in “reverse”). Lo sviluppo di Time: da ballata romantica a una coda quasi aggressiva passando attraverso un algido intervento di tromba. E ancora, l’incedere lento e pesante di Moonshine, cui però non mancano misure dispari; la morbidissima canzone You and I venata di bossa-nova; il crusadersiano bozzetto cantato di Pacific Ocean Blues; l’intimo ma corale e asimmetrico Farewell My Friend; l’inizio convenzionale e pulsante di Rainbows che però si autosospende nella parte B (anche con misure in 7/8); e l’ellittico End of the Show col quale termina il disco.
Il brano più insulso (fortunatamente anche il più breve) What's Wrong, quello più arguto Time.
Il fatto che tutte le canzoni siano alquanto brevi e sfumate nei finali fa in modo che questo disco sprigioni un invalso senso di incompiutezza…
Va segnalato l’apporto decisivo per l’esito del disco del co-produttore Gregg Jakobson, partner di scrittura di Wilson: quasi tutti i brani sono accreditati anche a lui.
Dennis Wilson, come un quieto mare, pronto a incresparsi al minimo soffio di vento, generatore di cerchi concentrici quando subisce pietruzze lanciate verso di lui che dopo esser rimbalzate in superficie si inabissano per sempre sul suo fondo; alterandolo.
*Gli statunitensi amano le chitarre, la stragrande maggioranza dei protagonisti della musica USA di Rock e dintorni ne fanno grande uso e messe al proscenio, basti pensare agli Steely Dan. Dunque è singolare che in Pacific Ocean Blue siano parecchio in ombra.