Lo swing in pratica è in antitesi con alcune tipicità di altri generi, come appunto la Classica e i suoi tratti moderni, per esempio il Progressive, anche per questo è così sporadico nei musicisti.
E sono loro che hanno o non hanno swing, è una qualità del suonare che non si impara semplicemente sulla carta (ammesso si abbiano le idee chiare in tal senso), ed evocare e quindi applicare quando si vuole: lo swing va assimilato praticandolo per molto tempo.
Pertanto lo swing fa la differenza nel mondo musicale, quasi lo divide in due; ed è requisito così fondamentale nel linguaggio jazzistico che, pur avendo talento creativo d’improvvisatore e istruzione a districarsi all’impronta nelle complesse armonie jazzistiche, chi non ha swing non è considerato un abile jazzista (perfino il fuoriclasse Al Di Meola è carente).
Fatta questa generica premessa, diffusamente si risolve la questione in maniera banale, si tende a dire che è indefinibile… o si semplifica troppo, uguagliandolo alla scansione ritmica terzinata dello shuffle: suono lungo + metà di esso* (in un movimento); o una comunanza delle due.
E, in effetti, la cellula dello swing è quella dello shuffle, ma allora perché due nomi? E quale sarebbe l’oscillazione? Lo shuffle altro che oscillazione, fluttuamento arioso, è un pesante martellamento a terra!
È che lo swing ha due fondamentali differenze, congiunte, che lo rendono diverso da tutti, anche dallo shuffle: gli accenti** nei movimenti deboli dello scorrere mensurale, connessi con l’alternanza tra movimenti terzinati e non terzinati. Ciò fa oscillare il tempo percepito da tutti, che genera lo swing.
Tuttavia non si può prescindere da questo fondamentale modello, se si esce da questo non si ha swing.
Va anche considerato che di solito il jazzista sente lo scorrere degli impulsi temporali, soprattutto quando di scansione media o rapida (praticamente sempre quando molto veloce), col tempo tagliato, a metà: per esempio un 4/4 a 150 bpm diviene un 2/2 a 75 bpm, ovvero i quarti nel singolo movimento (rallentato di metà) s’intendono figure di ottavi.
Ciò accresce il sentire lo scorrere fluttuante e arioso giacché quei movimenti dei tempi deboli, il 2 e il 4, col tempo tagliato divengono i levare dell’1 e del 2. Pertanto all’interno del singolo movimento c’è il battere con la sua metà di segmentazione temporale intera/binaria e il levare (col resto della metà temporale) terzinata e frazionata proporzionalmente. Questo è lo swing.
Quindi la tanto diffusa idea che il Jazz sia sincopato e poliritmico (tutte le musiche in pratica lo sono…), è che le sincopi accentuali del segmento terzinato sono ricorsive e che spesso si sovrappongono a parti binarie (di solito non accentate): l’esempio più tipico è la parte walking del basso con quella della batteria (poi ci saranno le improvvisazioni dei solisti, il pianoforte d’accompagnamento ecc.).
Un tanto semplice quanto luminoso esempio di swing è quello del brano If I Were A Bell registrato nel 1956 per il disco Relaxin’ with the Miles Davis Quintet: il trombettista dà il tempo schioccando le dita sul 2 e il 4, o meglio, col tempo tagliato, in levare; segue il piano con il motivo che marca gli altri quarti, quelli in battere, e a 15” la batteria con le spazzole col ritmo shuffle ma al doppio della velocità: in sostanza quello che sarà il ritmo basilare dell’Hip-hop.
*In rari casi la suddivisione può essere intesa anche croma puntata + semicroma.
**Dunque per la corretta accentazione è importante l’emissione sonica, ossia la produzione e la condotta del suono, insomma l’articolazione tecnica del suo inviluppo dinamico, che non è quello più netto e angolare della Classica, neutro, ma più curvo, arrotondato nella sua (in)flessione energetica. Il portamento fraseologico dei singoli suoni nello scorrere del tempo musicale, nella ripartizione ritmica precedentemente vista, è schematizzabile in tre fasi: relax-inspirazione/ sforzo-espirazione col vertice dinamico/ coda di rilascio.
Anche qui innumerabili differenze ben percepibili, e non solo tra musicisti, pure nella stessa esecuzione dello stesso musicista dello stesso brano, che tende a evidenziare intenzionalmente; e questa è un’altra prerogativa del jazzista: marca in modo inesorabile la diversità tra il Jazz e il resto del mondo musicale.