Dall’intrico boschivo esistenziale, nella sua radura dell’essere artista, Hammill con questa nuova opera filtra luminose forme soniche che rischiarano; pure intorno a noi, che ne stiamo al limite, che osserviamo vivendo nel groviglio di alberi e cespugli. È pertanto luce tenue, filtrata dagli alberi, una quieta e diffusa atmosfera di colori e umori che non permette tanto di vedere distintamente intorno a noi quanto di esserne come forme partecipi; di assimilarla.
Hammill da grandissimo artista qual è, sembra farsi carico di purificare ciò che sente di sé e del mondo, ciò che circonda e assedia il suo spirito e corpo, creando… ogni disco della enorme e poliedrica opera partecipa a un’impresa titanica, ed epica, sforzandosi di usare differenti spazi e tempi, intonazioni e forme rituali, formidabili liturgie laiche per confondere e quindi vincere il pericolo incombente e invalso di disfacimento.
Scrive Holderlin che “i poeti si rivelano perlopiù all’inizio o alla fine di un’età. È cantando che i popoli abbandonano i cieli dell’infanzia per entrare nella vita attiva, nel regno della civiltà. È cantando che essi ritornano alla vita primitiva. L’arte è la transizione dalla natura alla civiltà, e dalla civiltà alla natura.”
A noi Hammill non suggerisce nell’orecchio, ma a lui sembra che Apollo e Ares sin dall’inizio abbiano suggerito qualcosa, e continuino a farlo.