Una stravagante ballata che è in assoluto il brano preferito da Hancock (nato per un jingle).
Dirvi del suo sondare ampi spazi ignoti, per poi ben scandagliare le parti più ammalianti; e invece no. Della sua materia e forma, della sua carne e sangue, del suo essere fuori schemi con garbo. Meglio tacere.
Avrei voluto descrivere di come siano riusciti a dare forma al silenzio, delle note estese che spaziano e respirano senza una normale pulsazione… rarefazione di energia e di slancio vitale; stravagante sensazione di vastità e ondeggiamento, prodigioso punto di equilibrio tra stabilità e instabilità.
E già, perché avrei voluto dare conto della sua tenuità ed eleganza, della sua melodia che procede per quarte, della pluri-modalità con quattro accordi così moderni, peculiari, muovendosi piano e in maniera eccentrica, ma non lo farò. E soprattutto non dirò del suo stranissimo tempo.
Quello poi! in 4/4, sì, certo…
E dei bellissimi assoli, in special modo del sassofonista George Coleman e di Hancock, che coerentemente evitano di suonare le note terze degli accordi e con l’usuale arco di climax, che avrebbero tanto fatto “passato”.
Questo pezzo di musica racconta di un presente sospeso, planante lieve verso il futuro, non di un trascorso denso di sterminati campi di cotone né di asfalto e cemento metropolitani con luci al neon.
Pur fatto di carne e sangue, sembra abbia la consistenza metafisica di un sogno, infonde, come cullando sull’acqua, un presagio di serenità; nonostante tutto.
Ci rammenta, mentre ci augura buon viaggio, che c’è sempre una via di uscita.