Questo gli permise negli anni ’70 di essere apprezzatissimo componente in gruppi hard rock (Thin Lizzy e Skid Row) e Jazz-Rock (Colosseum II di Jon Hiseman).
Dopo l’episodico “Grinding Stone” del ’73, cominciò un po’ più convintamente la propria carriera solista, pubblicando nell’autunno del ‘78 un rispettabilissimo disco: “Back on the Streets”. Moore in quel tempo si dibatteva bene tra episodi strumentali più impegnativi e pezzi hard-rock, tuttavia dopo il ciclone Van Halen, giunse ad abbracciare risolutivamente l’hard rock, e pubblicò una serie di buoni dischi per tutto il decennio degli Ottanta.
Dopo ci fu una sbandata un po’ tecnologica (testimoniata dai dischi “A Different Beat” e “Scars”) con loop e campionamenti, andando un po’ appresso a colui che chitarristicamente stimava moltissimo: Jeff Beck; poi riprese i più tranquilli percorsi di rock-blues, con qualche piccola escursione…
Dunque Moore è stato un campione di ecletticità, e seppur non di originalità (e quindi di creatività), sicuramente di espressività, dimostrando in ogni occasione di essere efficientissimo, credibile, che si trattasse di una parte musicale più articolata o sequenza di rudi accordi, accelerazione neo classicheggiante o contorcimento bluesy.
Inoltre si distinse in una delle cose apparentemente più semplici, però meno frequentate dai chitarristi rock poiché molto insidiosa: la ballata melodica. Pochi sono i chitarristi rock a proprio agio quando c’è tanto tempo e spazio da governare; quando c’è il potere di assaporare una nota dopo l’altra. Pochi quelli melodici e inventivi, che riescono a dosare l’afflusso di adrenalina giovanile, quella sportiva e ormonale che fa solo correre, saltare e strillare, ma che non permette di inventare estemporaneamente una bella e lunga storia e raccontarla. Lui sapeva fare anche questo.