Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

Come si realizza la Fusion

11/1/2017

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Dopo il post di ieri su Mike Stern, sempre in tema di Fusion, credo sia necessario un piccolo approfondimento su cosa determini questo genere. È facile immaginare si tratti di un genere che ne misceli altri, ma quali e come?
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Chick Corea Elektric Band
Per ottenere la musica che è passata alla storia come Fusion, dobbiamo tenere conto che essa si realizza davvero quando chi la compone e la suona è “bilingue”, ovvero in grado di padroneggiare la lingua Jazz e fonderla con quella Rock e dintorni, ovvero Heavy Metal, Funk ecc. 
Non solo il Jazz-Rock, quindi, ma anche la Fusion è il risultato della mescolanza di diversi linguaggi. Talvolta nella Fusion è avvenuta soltanto una superficiale adozione di suoni e ritmi dei diversi generi e stili. Sul versante Rock è accaduto quasi sempre così (diversi artisti hanno adottato suoni e ritmi jazz), ottenendo una sorta di surrogato di fusione, e questo non è un giudizio di valore. D’altronde ci sono stati brani, dischi e autori “genuinamente” Fusion ma del tutto insignificanti; e viceversa, ovvero ottimi dischi con sperimentazioni tanto superficiali (perché non erano attuate mediante linguaggi strutturali ma solo con l’uso di qualche timbro e ritmo swing) quanto valide.
 
Il nocciolo è che, se è vero come è vero che si sono già mischiati Rock con Funk o altro (Reggae, Heavy Metal ecc.), e naturalmente frullati i tanti stili, tutti questi hanno di base lo stesso linguaggio (perciò non è Fusion).
Ovvero gli elementi costituenti di tutti questi generi si basano sulla stessa matrice di scale e accordi (in massima parte solo la scala maggiore/relativa minore e pentatonica), e sulla stessa procedura di manipolazione di questi materiali: determinato il breve giro di accordi o riff (sovente monotonale o modale) si sovrappone, a orecchio, un breve motivo melodico, ripetendolo moltissime volte; oppure, dato il motivo, lo si arricchisce con un giro accordale.
 
Nel Jazz la procedura base di costruzione di un brano è del tutto simile, ma le matrici di scale e accordi sono più numerose e ciò determina molte più possibilità e variazioni, e molte meno ripetizioni; inoltre c’è, in quel caleidoscopio di schemi di suoni, il controllo quasi scientifico (ed estemporaneo) di ogni singola nota sovrapposta a ogni singolo accordo: non lo si fa ad orecchio ma intellettualmente, di solito scrivendolo.
 
Semplificando, si può intendere il linguaggio jazz come basato sul preciso e costante controllo delle armonie che scorrono, cioè la capacità all’istante (o giù di lì) di seguire il fluire degli accordi nel tempo e suonare opportunamente linee melodiche. E questo suonare opportunamente, significa le note “giuste”; e queste note sono quelle che appartengono alle diverse e rapide modulazioni armoniche in divenire.
Peraltro i jazzisti, soprattutto dal bebop in poi (circa dalla metà dei ’40), hanno formalizzato la capacità di suonare anche le note “sbagliate”, ossia quelle che non rientrano nelle modulazioni, quelle “fuori tonalità”: oltre le note super consonanti e delineanti rigorosamente le armonie e quindi IN, anche quelle dissonanti per rendere più sofisticato il discorso, quelle OUT.
 
Questa è la costante dialettica su cui è in massima parte basato il linguaggio jazzistico e le sue procedure. E tutto ciò negli altri generi è sostanzialmente assente, anche nel Progressive, che è quello più avanzato in termini teorici e complessità. Dunque se non si “parla” jazz non si può realizzare seriamente la Fusion.
E anche a livello solistico tutti i più grandi musicisti rock, in particolare i chitarristi, non posseggono quelle capacità jazzistiche; e non solo i fuoriclasse storici più illuminati, ma pure quelli più moderni e preparati teoricamente, uno su tutti, Steve Vai.  Difatti, nelle loro decennali carriere, non hanno mai davvero realizzato non un disco, ma nemmeno un pezzo fusion… Anche per questo va sottolineato il valore storico della Fusion.
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    Carlo Pasceri
    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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