Le potenti ed efficienti funzioni armoniche accordali già logorate da un cromatismo esasperato da Wagner e i suoi epigoni del tardo ‘800 primissimo ‘900 (Strauss e Mahler), saturate anche da gigantismi sinfonici verbosi ed esplorando tutte le strade diatoniche (organizzate per terze), hanno ricevuto la spinta finale verso il baratro con la comparsa della nuova scuola francese iniziata da Gabriel Faurè, continuata incisivamente da Erik Satie e Claude Debussy con le loro piccole e deliziose pagine musicali, altamente innovative. Dal canto suo il grande Maurice Ravel fu un potente ed efficace loro fiancheggiatore; guarda caso allievo di Faurè…
Dunque un artista tanto importante quanto misconosciuto per la transizione tra il vecchio secolo e quello nuovo fu Gabriel Fauré, un poeta dal tono sommesso, che alla luminosità preferisce la luce filtrata, alle potenti declamazioni romantiche gli armoniosi inarcamenti di piccole ma tante e sinuose e fluenti melodie. Il suo linguaggio si è andato man mano raffinando: partito dal classicismo razionalista del suo maestro Camille Saint-Saëns, influenzato dal Romanticismo, in particolare da Franz Listz e Hector Berlioz (ma anti wagneriano), progressivamente sviluppò una peculiare fisionomia stilistica che “sottovoce” indirizzò la musica francese verso il superamento dei moduli e delle formule del tardo-romanticismo, mutuando da Fryderyk Chopin l’arte del cesello e dell’introspezione (ballate e notturni). Pertanto Faurè aveva un linguaggio musicale elegante e discreto e prismatico: la sua cifra stilistica era caratterizzata da un costante senso d'intimismo, da un colore strumentale e da un'atmosfera espressiva d'estrema suggestione nelle sfumature, da una scrittura dalle tonalità sfuggenti e armonie dinamiche, dai contrappunti insinuanti e delicati, tutto saldamente proporzionato, dotato di una grazia classica, greca.
Da questa radice fauriana Debussy e Ravel faranno germogliare capolavori assoluti, il primo prendendone innanzitutto il carattere evanescente e coloristico, e il secondo la solidità strutturale nel fondamentale disegno dai limpidi contorni.
Partendo da una comune radice fauriana | Debussy ha quasi fermato la conduzione del tempo. Le sue armonie non funzionali ossia non obbedenti alle leggi diatoniche codificate da Rameau tese a convogliare le note verso una risoluzione, pertanto non partecipando alla perenne dialettica dissonanza-consonanza tipica dello sviluppo tonale, erano un dato espressivo a sé stante: macchie sonore di particolari impasti timbrici insieme con il proliferare di frammentarie melodie (anche esotiche) con imprevedibili traiettorie intessute nella stoffa armonica perciò non agevolmente distinguibili, e forme non classiche. Stupefacente. Ravel dal canto suo, oltre alcuni colori fauriani e l’uso di scale non diatoniche (pentatoniche ed esatonali) e quindi assimilabile a Debussy, fu quello più ardito nell’uso delle dissonanze e di ritmi spietatamente meccanizzati o sincopati jazzistici: più provocatorio ironico e disincantato, ostinato innovatore ma all’interno di strutture convenzionali, fu uno dei più abili orchestratori e quindi nell’uso dei colori timbrici dei singoli strumenti. Un’originale e colta somma algebrica degli altri tre (Faurè, Satie e Debussy). Tutti questi, sovrapponendosi agli ultimi bagliori del sinfonismo romantico, hanno praticato un’estetica modernista un po’ anti accademica, frutto naturalmente del clima culturale che in quegli anni stava mutando con tutti gli –ismi che sorsero: simbolismo, impressionismo, espressionismo, futurismo, dadaismo, astrattismo… Gettarono indirettamente le basi di un radicale rinnovamento del linguaggio musicale che nei primi decenni del ‘900, per opera di Arnold Schonberg, spiccò una dirompente risposta inventando la Dodecafonia: sistema ove non esiste più alcuna gerarchia di note, tutte sono dello stesso valore, nessuna deve prevalere: una democrazia musicale. Nacque così la musica cosiddetta “atonale” seriale, dal carattere più melodico e meno armonico, casomai polifonico: sorta di musica bachiana di mondi alieni… |
Infatti, già Debussy si era rivolto al patrimonio musicale orientale e all’antica modalità ecclesiastica e Ravel a quella spagnola, aprendo la musica centro europea al mondo, poi Igor Stravinsky e Sergej Prokofiev, e soprattutto Bela Bartok attinsero al loro (o di altri) patrimonio folclorico (soprattutto dell’Est) in quanto a linguaggio musicale a tutto tondo, anche ritmico, sviluppando ulteriormente i caratteri della musica Classica parallelamente all’atonalismo della scuola viennese dei tre succitati e al Jazz afroamericano che si stava sviluppando, e che alcuni come Dvorak (antesignano della tendenza “world”), Milhaud, Antheil e Weill (e l’infiltrato Gershwin) hanno veicolato nei loro lavori alcune suggestioni jazzistiche…
Da sottolineare, quasi a compensazione con l’innovativa volubilità e modernità espressa dalla musica di Debussy (svincolata dalle ramificazioni fino allora variamente perseguite radicate nella polifonia gotica-rinascimentale e nella melodia accompagnata barocca-classica), il riemergere di una musica assai statica e modale, ove il Bolero di Ravel e il Carmina Burana di Carl Orff sono gli esempi più grandiosi e famosi.
Ma con il cataclisma della seconda guerra mondiale, e l’eclissi per vari ordini di motivi di questi giganti, di cui Dimitri Shostakovich fu il più illustre epigono, e la comparsa di aggiuntive tendenze, incarnate nell’immediato dopoguerra innanzitutto dal francese Olivier Messiaen, s’interruppe piuttosto bruscamente l’evoluzione della musica Classica come la si intendeva, e come la si intende tutt’oggi. Dopo la breve esperienza del serialismo integrale per opera di Pierre Boulez, emersero altre e ben più dirompenti propensioni artistiche anche ideologiche (e politicizzate), basate su avanzate tecnologie e che dagli anni ’50 cominciarono a essere a disposizione della nuova generazione di compositori lavorando sul concreto suono.
Mai nella storia musicale si è assistito a un cinquantennio come quello del secolo scorso, così ricco di fermenti ed esiti innovativi variamente assortiti, a volte affatto diversi (anche al netto della musica afroamericana che era nata e che si stava sviluppando): un’epoca eccezionale.
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