Carlo Pasceri
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Libro Eroi Elettrici

Lo strano caso dei Grails

19/1/2017

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La grande famiglia del Rock si è nobilitata mediante alcuni artisti soprattutto all’inizio della sua grande avventura e quindi tra gli anni ’60 e ’70. Il florilegio di grande qualità realizzato in quegli anni è straordinario: la creatività sembrava inesauribile, e invece…
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Successivamente, negli anni ‘80/’90, di musicalmente rilevante è accaduto poco, qualcosa nell’ambito “elettronico”, la seconda ondata inglese, l’Heavy Metal, qualche isolato bagliore, impulso, e… basta. Dopo molte cose che, seppur gradevoli e ben realizzate, sono confezionamenti industriali di piccoli bocconi del luculliano banchetto passato.  
I Grails sono un gruppo americano degli anni Duemila di Rock postmoderno ma di natura arcaica, poiché modali e dilatati, non basati sul fitto contrappunto medieval-rinascimentale né sul giroscopico e “moderno” sistema tonale: è la più rilevante proposta di questo decennio. 
Una manciata di dischi: nascono discograficamente nel 2003 con The Burden of Hope e l’ultimo a oggi è Black Tar Prophecies Vols. 4, 5, & 6 del 2012; fra un mese è prevista l’uscita di Chalice Hymnal: magari ne riparleremo. I Grails riprendono parzialmente quel che i primi Porcupine Tree hanno lasciato in corso d’opera con la svolta di In Absentia del 2002.

Del tutto strumentali; no virtuosismi, no canzoni, no assoli, no compatte aggressioni sonore.
La loro musica è interessante, seppur strutturata con semplicissimi (e non di rado banali) motivi melodici reiterati e appena variati, riff, morbidi e semplici tappeti armonici, talvolta con ritmi sincopati ma non assalenti; usano magistralmente spazi, tempi e timbri: né troppi, che tendono a saturare, né pochi, che tendono ad annoiare.

Suoni mobili all’interno di pannelli statici; i Grails non avvicendano pannelli musicali, ossia macro condizioni diverse (e nemmeno le piccole strutturazioni formali di intro-ritornello ecc.), ma mutano circostanze musicali all’interno della cornice: stabilito il fondo atmosferico di riferimento, trasformano quel tanto da ampliare i perimetri e non ipnotizzare l’ascoltatore ma immergerlo in un discreto effluvio di suoni, tale però da non sommergerlo. I Grails realizzano coreografie oniriche, nostalgiche, forse per qualcuno un po’ paranoiche e funeree, comunque fascinose perché inconsuete.

I suoni, le note e i ritmi dei Grails, il più delle volte, sono rarefatti; in quest’epoca compatta e ipertrofica offrono un profondo e quieto respiro, sono efficaci nel determinare notevoli suggestioni. Sono al limite dell’Ambient (Eno e Fripp? sì, perché no…) e della poco nobile e alquanto cialtrona New Age. Insomma atmosferici, però, in virtù di una produzione nutrita e, nell’ambito di queste coordinate, parecchio differenziata (a volte più basata sulla chitarra, altre sulle tastiere, sui ritmi di batteria, sui timbri, a volte più cantabile, altre più pulsante e ruvida…), sono riusciti a ritagliarsi il loro vitale spazio espressivo.
​
L’area di riferimento dei Grails è al confine di quella delle azzurre e gialle distese pianeggianti americane alla Aaron Copland (per esempio Billy The Kid nell’interpretazione chitarristica di Bill Frisell), e di quelle meno assolate, più grigie e frastagliate dell’Europa continentale dei Gong, Can…
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    Carlo Pasceri
    Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore.


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