Cominciai a guardare tutt’intorno: parecchi dischi; mi dovevo ambientare…
Iniziai a rovistare, però dopo poco gli occhi guardavano ma non vedevano: stavo drizzando le orecchie come parabole alla ricerca del segnale giusto, per captare meglio ciò che il negoziante stava facendo risuonare nell’ambiente.
Dopo un po’ s’insinuò la voce di un cantante: poche sillabe con angolari traiettorie melodiche.
Rese ancora più stravagante l’atmosfera.
Così ci si accorda meglio col proprio immaginifico circostante, dalle radici e rami degli alberi al cielo; quando il possibile anche se improbabile è reso vero dagli occhi della mente.
Ormai facevo solo finta di rovistare; non riuscii a trattenermi e chiesi chi fossero. A malapena intesi il nome.
Chi?
Il disco solista appena uscito del cantante dei Talk Talk? Quel gruppo inglese di successo degli Ottanta?
Va bene. No no, non importa, non è un regalo… Grazie e arrivederci.
Mi è capitato molte volte di ascoltare più o meno fugacemente un disco, interessarmene parecchio, poi, dopo vari ascolti, più attenti e completi, l’attrazione diminuiva parecchio.
Con Mark Hollis accadde il contrario, la sua musica fu un formidabile magnete, e allo stesso tempo un potente propulsore per indagare la sua carriera che evidentemente mi era sfuggita. Mi sono rincorso.
Andai a ritroso e scoprii che gli ultimi due dischi dei Talk Talk a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta erano i genitori di quello che mi aveva folgorato. Ne fui incantato e sbigottito.
Ascoltai con attenzione anche i precedenti dischi del gruppo, che parzialmente conoscevo, sui quali mai mi ero soffermato, e fui contento di apprezzare appieno la loro ottima musica tinta di Pop.
Per me la musica è sempre stata una cosa concreta, poco immaginaria e astratta.
Per poterla produrre fu inesorabile la solitudine dell’apprendimento sui libri e dell’esercizio manuale sullo strumento; per decenni il realizzarla mi ha fatto sudare o rabbrividire dal freddo, imprecare e gioire per qualcosa che rasentava la mia pelle e risuonava nel torace su qualche palco, sala prove o studio di registrazione.
E se qualcuno mi domandasse quali artisti indicare come messaggeri pure di un portato metafisico, filosofico del fare musica, mi verrebbero in mente pochissimi nomi, basterebbero le dita di una mano per tenerne il conto: Mark Hollis è uno di questi.
E ritengo che la sua musica si sia perfettamente attagliata alla severa condotta artistica che ha tenuto, evolvendosi in una maturazione nella quale mi è sembrato un samurai che affinava sempre più la sua spada, fino forse a rovinarne la lama... Perlomeno quel che ho percepito io, ossia una sorta d’identificazione tangente tra arte e vita segnata da un rigore integralista, un sentirla come istinto di sopravvivenza e benessere fisiologico, l’esprimere il senso dello scorrere della propria esistenza creando qualcosa di significativo e diverso da altri.
Da ieri nessuno sa quel che ne è di lui; ma so di me.
Mark Hollis avrei voluto conoscerlo prima e meglio perché per suo merito, da quella sera d’inverno, sento di essere una persona migliore.