Sylvian ha debuttato alla fine dei ’70 con il suo gruppo Japan nell'alveo stilistico dei Roxy Music e di Brian Ferry, il suo apogeo artistico lo ha avuto negli ‘80/’90, realizzando alcuni dischi notevoli. Brilliant trees (’84), Alchemy: An Index Of Possibilities (’85), Gone To Earth (’86) e Secrets Of The Beehive (’88) sono i primi quattro; dopo una lunghissima pausa realizza Dead Bees On A Cake (’99). Nel frattempo qualche proficua collaborazione, le più note quelle con Ryūichi Sakamoto, Holger Czukay (dei Can) e con Robert Fripp (presente come ospite in “Gone”), che ha dato vita nel ’93 all'ottimo First Day (un disco più ruvido del solito per Sylvian, seguito da Damage: Live).
Pertanto più di qualche punto di contatto con altri artisti inglesi fondamentali, come Robert Wyatt, David Bowie e Peter Gabriel. E Fripp ha collaborato con tutti questi. D'altronde nella reincarnazione crimsoniana degli ’80, si avvertono delle corrispondenze tra i due loro mondi: il più marcato esotismo orientaleggiante, e l’approccio stilistico di Levin con quello di Mick Karn (bassista dei Japan).
Sylvian ha perseguito nei decenni successivi, fino a oggi, anche attraverso diverse collaborazioni con altri musicisti, un fine sperimentale mai piegato all'industria Pop, realizzando dischi prevalentemente strumentali, un po’ ambient, un po’ improvvisati, un po’ estremi, avvicinandosi parecchio al noise; non banali.
Il suo itinerario è affascinante, la compressione e la dilatazione di generi e stili unita alla spregiudicata ma attentissima fusione di sonorità elettriche e acustiche (in questo non dissimile dal pioniere John Martyn), ha prodotto musiche innovative, nelle quali questi elementi sono continuamente diluiti, generando atmosfere meditative striate di malinconia, a volte di liquida nostalgia. Sylvian più etereo che terragno: poca carne, molto sangue.
Il suo mondo sonoro è pieno di canzoni ellittiche e bozzetti strumentali che dolcemente incrociano Rock e Jazz, che fissano come istantanee polaroid, sviluppandosi immediatamente nella nostra memoria spirituale, i suoi pensieri, le sue percezioni e sensazioni. Sylvian ha colto con uno sguardo introspettivo, accedendo a una dimensione sempre più intimista, i suoi più sottili mutamenti umorali ed esistenziali: chiaroscuri espressi in sonorità appena sfumate di colori.
Si è rinnovato tramite un minimale ma continuo processo di elaborazione dei suoi acquerelli, derivanti anche da grandi “quadri” altrui (i già citati Bowie, Wyatt, Gabriel) e affreschi generazionali (il grande alveo rock dei 70), arrivando a una tale profondità da far smarrire le primigenie caratteristiche di ognuna di queste matrici; talvolta anche le sue. Trame austere ed esotiche, amalgama di pulsioni elettroniche e risonanze acustiche con intrecci di soffici coaguli armonici e sensualità fornita dalla sua voce, che realizzano una musica che verrebbe da dire ambient, ma è molto di più…
Nelle melodie (quando presenti) rifugge il patetismo consolatorio sia nell'espressione sia nel loro andamento, preferendo la sofisticatissima provocazione mediante il contrasto tra l’iterazione di piccole cellule sonore e la forza centrifuga, mai violenta, di eleganti e delicati, pervasivi e decoratissimi tappeti sonori continuamente cangianti, insieme con la propensione a non creare dei ritmi banali (mutuata dall'esperienza Japan e dalla grande scuola inglese “elettronica” degli ’80).
Tutto questo fa sì che Sylvian sia al contempo seducente ed evanescente come un sogno dopo il risveglio. Spesso con lui vivono limiti ambigui, guazzabugli polimorfi: un po’ d’intimo scompiglio come di cose dentro cassetti rovesciati in terra; che però dopo un attimo riconosciamo essere cose nostre…