Articolo pubblicato su Axe Magazine n.91 settembre 2004
Jazz-Rock in parallelo
di Carlo Pasceri
John McLaughlin e Al Di Meola sono i chitarristi più importanti di un certo tipo di musica strumentale degli anni '70, il jazz-rock, e tutt’oggi sono molto attivi; nel corso degli ultimi due decenni hanno fatto uscire piuttosto regolarmente dischi notevoli, mai di modesta qualità. I due nel corso di quegli anni, non senza competere, si sono quasi passati il testimone nell’incarnare musica e perizia strumentale ad altissimo livello con la chitarra che sale al proscenio conducendo una band su sentieri ardui e pieni d’invenzioni. Poi nel 1980 hanno collaborato con un altro grande della chitarra (flamenco) Paco De Lucia, quindi pubblicato quella pietra miliare della chitarra virtuosistica che è il disco live “Friday Nigth In San Francisco”. McLaughlin è il fondatore del jazz-rock vero e proprio, quello più maturo e completo, quello svincolato dalle coordinate davisiane dense d’improvvisazioni. La musica di Davis e i suoi epigoni infatti è sicuramente di grandissimo valore e di forte contaminazione funk, di rock aveva solo qualche caratteristica e quasi esclusivamente timbrica. D’altra parte una musica strumentale di matrice jazz, ma con forti innesti di moduli funk, blues e canzone era già compiuta nei primissimi anni '70. I rappresentanti più bravi e noti sono i Crusaders (dove militò il grande Larry Carlton); in seguito (tra i ’70 e gli ’80) questa musica, ribattezzata fusion, dilagherà a fronte del declino del prog e del jazz-rock, ma che a sua volta esaurirà presto il suo sviluppo e slancio vitale cristallizzandosi in una musica super formale.
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"McLaughlin è il fondatore del jazz-rock vero e proprio, quello più maturo e completo, quello svincolato dalle coordinate davisiane dense d’improvvisazioni"
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Invece McLaughlin (e poi Di Meola) ha saputo fondere nella sua musica “contaminata” elementi basici del rock come la potenza e l’aggressività basandosi pure su molti trascinanti riff. Da qui la tendenza a comporre pezzi con atmosfere poco intimistiche e introspettive, la non dilatazione dei brani, quindi la limitazione di assoli sia nella quantità sia nella lunghezza, alcune complicanze e virtuosismi propri del rock progressive come cambi repentini di atmosfere e tempi complessi. D’altro canto c’è stato pure un rigoglioso e importante fiorire del jazz-rock europeo (in particolare britannico) spesso direttamente derivante dall’esperienza progressive: EGG, Nucleus, Magma, Khan, Matching Mole, Henry Cow, Hatfield and The North, Brand X e UK, sono i nomi più rappresentativi che meglio hanno saputo coagulare le straordinarie fertilità del periodo. Nei numeri 83 e 84 di AXE abbiamo affrontato una retrospettiva della musica prog, e n’è derivato (tra le altre cose) che questa musica virtuosistica, viste le conseguenze tecniche, è stata (ed è tutt’oggi) insieme con il jazz-rock la musica “moderna” per musicisti amanti del groviglio. Quindi il prog e il jazz-rock sono fari e fonti d’ispirazione per i musicisti odierni. Dal jazz-rock è scaturito un modo di fare musica strumentale virtuosistico e narcisistico che ha portato spesso a prediligere la velocità di esecuzione o comunque le complicanze tecniche. Questo aspetto virtuosistico appare come una passione privilegiata poiché delinea, attraverso una rigorosa disciplina, una formalizzazione comparabile a quella delle scienze in generale e della matematica in particolare con un’attitudine gloriosa e glorificante alla competizione sportiva. I musicisti jazz-rock, e tutta quella moltitudine di strumentisti (in particolare chitarristi) cresciuti nei decenni successivi, hanno inventato strumenti e tecniche che si adattassero e risolvessero le problematiche fisico-musicali.
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Ma la ricerca tecnica può e deve svelare spazi musicali inesplorati conducendo ad innovazioni ritmiche, melodiche, armoniche e timbriche quindi a nuove invenzioni ampliando pure le risorse espressive di un dato strumento. L’equilibrio tra l’allenamento, cioè la ripetizione spossante di alcuni gesti per acquisire una grande tecnica e l’ossessiva ricerca di perfezione formale è fragile: se è vero come è vero che la spiritualità per essere raggiunta ha bisogno di esercizio e fatica, è altrettanto vero che l’errore (o il quasi errore) è spesso irripetibile, e in quanto ciò acquisisce un valore artistico di solito non preso nella giusta considerazione. Troppe volte quindi l’eccessivo addestramento ha portato, giacché i musicisti hanno favorito la forma rispetto ai contenuti, ad una grave degenerazione (tutt’oggi ne avvertiamo le nefaste conseguenze): la velocità e il “come” hanno prevalso sulla poesia e il “cosa”. Insomma il musicista vince sulla musica, la pratica strumentale sulla creatività musicale e l’individualismo sul collettivismo! Pure il Romanticismo dell’Ottocento musicale ha "nutrito" moltissimi individualisti che spesso erano dei formidabili virtuosi (su tutti Paganini e Liszt), ma la differenza è che essi facevano musica senza preoccuparsi delle convenzioni imperanti quindi da loro di frequente scaturiva un’opera originale e creativa. Il virtuosismo, nelle sue forme peggiori, fa declamare avvenimenti ma non li suscita; in quelle migliori è eroico giacché si vuole spingere fino al limite, fino all’infinito, con l’inadeguatezza e la consapevolezza di usare strumenti finiti in mano ad esseri finiti. Il virtuosismo è sussulto appariscente, genitore di forme di adulazione e quindi di bieca e cieca emulazione da parte di chi non ha il coraggio di andare oltre (o essere, più prosaicamente, invidioso). Si compie quindi l’oscena emulazione di chi esalta questi musicisti-demiurghi vedendoli come ministri di un auto-culto che partecipano ad una funzione magica, ritenendo che questi riti vengano fissati da schemi impersonali e codificati, quindi una volta decifrati e compresi, gli emuli passano dall’altra parte e partecipano alla liturgia a loro volta come sacerdoti.
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"Il virtuosismo è sussulto appariscente, genitore di forme di adulazione e quindi di bieca e cieca emulazione..."
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Ma questi saranno, bene che vada, solo degli efficienti esecutori, degli eccellenti orchestrali. Ovviamente più ci sono filtraggi insulsi come questi più si spersonalizzerà e si degraderà il messaggio originale, che magari meritava una fine più gloriosa: solo attraverso una considerazione approfondita dell’azione degli individui che esercitano una qualsiasi tipologia di virtuosismo, quindi cogliendo più possibile il loro “segno” distintivo e la loro espressione personale e poetica, si riuscirà ad andare oltre l’indegna misurazione di quanti suoni sono stati emessi in un dato tempo; esercizio tanto in voga e praticato dai molti che si reputano amanti della musica o musicisti loro stessi non in grado evidentemente di valutare il dato intervento strumentale/brano/opera nell’integrità creativa-espressiva-tecnica. La soggettività dell’idea e l’oggettività della forma ha fatto sì che molti siano in grado di “capire” semplicemente applicando il sillogismo velocità=bravura. Certamente il virtuosismo strumentale in musica è sempre esistito; per esempio il jazz, considerando solo la musica “leggera” del ‘900, ha dato uno straordinario impulso a questa “pratica”. Solo per citare alcuni musicisti tra i più noti, già con Art Tatum negli anni ‘30 e ‘40, seguito dall’effervescenza dei bopper con in testa Parker e Gillespie negli anni ‘40 e ‘50, da Oscar Peterson, Coltrane e Freddie Hubbard negli anni ’60 eccetera, abbiamo un’esplosione felice che, seppur non sempre, è stata anche con il passare del tempo creativamente rilevante giacché la velocità e le complicanze musicali furono usate come mezzo espressivo e non (almeno non del tutto) come fine per stupire. D’altronde il trascorrere del tempo per gli esercizi virtuosistici può rivelarsi fatale nelle considerazioni oggettive, non solo per quanto riguarda l’effettiva importanza dell’opera presa in esame nella sua interezza ma (cosa ancor più svilente), anche per la valutazione del grado di quel particolare virtuosismo: il passare degli anni frequentemente sopisce la meraviglia che ci fece trasalire allora e quasi ci emozionò. L’emulazione e la ricerca quasi agonistica del superamento del limite imposto da questo o quel musicista, fa spesso dimenticare che l’artista (laddove ce ne fosse uno), a parte la naturale propensione all’esibizionismo e alla ricerca dei limiti imposti dal proprio strumento, ha espresso ben di più di una pratica artigianale.
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John McLaughlin e Al Di Meola sono stati negli anni '70 i chitarristi dei chitarristi, quelli più invidiati a fronte dell’enorme bagaglio tecnico. La velocità d’esecuzione unita a una dizione delle note pulitissima ha fatto sì che questi due “mostri” attirassero gli appassionati a migliaia ai loro concerti, e che i loro dischi vendessero quasi come quelli pop! Ma c’era molto di più: non solo il loro chitarrismo ma pure la loro musica era eccezionale. Altrimenti come spiegare che il signor Allan Holdsworth (l’altro grande virtuoso dell’epoca) era sicuramente meno accreditato e famoso? Infatti lui, seppur impegnatissimo in molti progetti di gruppi e musicisti molto seguiti (Ian Carr, Tempest, Lifetime, Gong, Soft Machine e Jean Luc Ponty), non aveva un proprio gruppo quindi un credito come compositore e band-leader, pur considerando qualche sparsa composizione (di certo non all’altezza di quelle di McLaughlin e Di Meola). All’epoca gli ascoltatori consideravano molto la musica nel suo insieme. Non si stava di certo a bocca aperta incondizionatamente e magari per anni di fronte al virtuoso di turno se non aveva nient’altro da dire: ci si annoiava prestissimo! John McLaughlin ha iniziato (stimolato dalla madre violinista dilettante) ad ascoltare e successivamente a studiare musica classica prendendo delle lezioni di pianoforte. Poi ha scoperto il blues, il jazz e tutto il resto ed è quindi passato a studiare la chitarra. McLaughlin ha, prima di maturare e divenire una stella di prima grandezza nel firmamento musicale, suonato in varie band jazz-blues come quelle di George Fame, Alexis Corner e Graham Bond; con quest’ultimo si è ritrovato addirittura con la sezione ritmica dei futuri Cream: Jack Bruce e Ginger Baker!
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"John McLaughlin e Al Di Meola sono stati negli anni '70 i chitarristi dei chitarristi..."
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Ma il chitarrista britannico diventò veramente famoso dopo il suo trasferimento nel 1969 negli USA seguendo le orme di Dave Holland, che lo raccomandò a Tony Williams che stava mettendo in piedi un proprio gruppo di jazz-rock proprio in quelle settimane: i Lifetime, con cui registrò due dischi storici, “Emergency” con l’organista Larry Young e “Turn It Over” con aggiunto Jack Bruce. Il grande Williams prima d’ingaggiare McLaughlin aveva ascoltato i nastri di un bellissimo disco che il chitarrista aveva da poco (nel 1968) registrato in patria in quartetto: “Extrapolation”. Questo è il primo disco solista di McLaughlin ed è di matrice jazz, ma un jazz particolare, moderno quindi non simile all’hard bop, seppur non ascrivibile né a quello del quintetto di Davis di quegli anni, né tanto meno al free. Fu aiutato da grandi musicisti come John Surman ai sax, Tony Oxley alla batteria e Brian Odges al contrabbasso. Il disco contiene 10 composizioni del giovane McLaughlin che tutto sommato vi mette le sue influenze e passioni: il flamenco, la musica orientale con pure le sue divisioni ritmiche particolari, Django Reinhardt, Tal Farlow ma pure Davis, Coltrane e Cannonball Adderly. Il tutto è già elegantemente fuso. Sempre nel 1969 partecipa al bel disco “Spaces” di Larry Coryell dove il chitarrista britannico su trame jazzy tessute da Chick Corea, Miroslav Vitous e Billy Cobham, duetta con il bravo Coryell. Sono quindi due anni intensissimi con tante collaborazioni e operosità: infatti ha ancora l’energia per registrare un altro grande disco pubblicato nel ’70, “My Goals Beyond”, quindi pre-Mahavishnu Orchestra, più mistico ed acustico di “Extrapolation”, con pure brani altrui come “Good Bye Pork-Pie Hat”, “Waltz For Bill Evans" e “Blue In Green”. Appena prima di questo ci sono due dischi: quello quasi free-jazz “Where Fortune Smile” accreditabile alla coppia Surman e McLaughlin, e quello con Buddy Miles chiamato “Devotion”, in cui ci sono le prime vere tracce di quello che accadrà l’anno successivo (il 1971) con la formidabile Mahavishnu Orchestra.
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Il primo disco della Mahavishnu Orchestra, “Inner Mounting Flame”, è stato pubblicato alla fine del 1971, ed è un‘opera che ha destato e desta meraviglia per la potenza espressa e le coniugazioni musicali che vanno oltre quelle indicate alla fine degli anni '60 dal divino Miles e riprese poi da tantissimi musicisti pure suoi ex collaboratori, che fecero fortuna mettendosi appunto in proprio (Weather Report ed Herbie Hancock in testa). Le coordinate di questo primo disco sono ben più ampie e derivano più chiaramente da quelle rock. Molti spunti erano stati anticipati dai grandi del rock progressive, ma in ogni caso con la Mahavishnu Orchestra abbiamo per la prima volta un chitarrista leader di un formidabile gruppo di musica super contaminata, a suo agio sia con l’idioma jazz sia con quello rock; quindi con le parti chitarristiche molto in evidenza. Era un suono nuovo ed eccitante, che ha appassionato tanti giovani, quelli però più maturi che tutto sommato consideravano (per esempio) i Led Zeppelin, i Deep Purple e addirittura i Santana come gruppi per giovanissimi, magari un po’ “sballati”, come si diceva all’epoca. La musica di McLaughlin era adulta e richiedeva impegno e concentrazione: anche in questo era imparentata con quella progressive, ma a differenza di quest’ultimo genere non raccontava favole d’altri tempi o storie del futuro, era legata più alla terra e al concreto e pervasa da brucianti improvvisazioni di retroterra jazz ma dotate di grande incisività mutuata dal rock. Il suo stile chitarristico è intriso di velocità e potenza che sono dettate da un’urgenza espressiva fino allora sconosciute in un chitarrista; poiché mai ci fu un chitarrista così pienamente consapevole di disegnare geometrie intersecanti composizioni di confine e contaminazioni di gran qualità, quindi in meraviglioso equilibrio tra il lasciarsi andare in una spirale quasi da esperienza trascendente di un nirvana musicale e la lucidità cosciente necessaria per attraversare quelle difficili trame musicali. Una sua peculiarità che in seguito sviluppò ulteriormente erano gli arpeggi armonici: a metà tra il riff portante e il contrappunto alle altre linee musicali suonate dagli altri strumentisti, tratteggiavano spesso il brano donandogli una connotazione davvero unica. Quindi c’erano bellissime composizioni e tanti pregiati assoli su basi prettamente modali e con ritmiche complicate che gli ascoltatori più attenti e appassionati avevano ascoltato prima solo da Lennie Tristano e Don Ellis (originari dal pianeta jazz), da Zappa e i gruppi progressive (provenienti dal pianeta rock). D’altra parte tutti i musicisti che hanno accompagnato McLaughlin in questa avventura avevano solide esperienze jazz, quindi possedevano confidenza con il linguaggio strettamente musicale e non cantato; volevano con i loro virtuosismi anche stupire i due mondi, quello jazz e quello rock. Questi musicisti hanno portato in alto i punti di riferimento di tecnica musicale e in particolare, oltre al leader, fu Billy Cobham a divenire di lì a breve una superstar della batteria. Oltre a loro due c’erano l’abilissimo Jan Hammer alle tastiere, l’altrettanto grande Jerry Goodman al violino e il più modesto Rick Laird al basso.
In particolare Goodman giungeva dall’esperienza dei Flock, band che aveva forti connotazioni pop considerando il cantato ed alcune ritmiche, ma che ha tentato un’unione tra jazz e rock negli anni 1969-71. Ma d’altronde i Flock erano vicini ai Blood Sweet and Tears e i Chicago, che qualcuno erroneamente (seppur non del tutto) ha considerato come i padri del jazz-rock. In realtà sempre un gruppo americano, gli Spirit, con un chitarrista chiamato Randy California, ha anticipato e pure di molti anni (hanno registrato nel ’67 e pubblicato il loro disco d’esordio nei primi mesi del ’68), molte fusioni, alcune delle quali le ritroviamo nella Mahavishnu Orchestra e i suoi epigoni, oltre aver realizzato quello che hanno compiuto i sopraccitati gruppi. In ogni caso la creatura di McLaughlin ha saputo andare oltre quelle bellissime musiche a fronte di uno spiccato virtuosismo espresso sia con la sua chitarra sia della sua musica in generale, e di un talento compositivo notevolissimo che non di rado sfrutta qualche verticalità propria della musica classica. McLaughlin ha pure evitato quelle ingenuità negli spazi improvvisativi che, seppur non frequentemente, comparivano nei dischi dei gruppi appena nominati; ed ha continuamente “pesato” le note suonando (soprattutto all’inizio) di rado velocissimo. Questo ha conferito ancor più carattere e carisma alla musica della Mahavishnu Orchestra. Ma torniamo ai dischi. Un anno dopo il fiammeggiante esordio è dato alle stampe il disco forse più bello, sicuramente quello più celebrato dell’intera vita del gruppo: “Birds Of Fire”. Ancora tanta aggressività ma purificata e sublimata con il sacro fuoco del virtuosismo sull’altare dell’ispirazione; in questo disco troviamo pure una produzione più raffinata, con dei suoni nuovi a fronte del sinth di Hammer, e qualche pezzo come “Hope”, “Sanctuary” e “Resolution” con dei respiri quasi sinfonici. Il successivo “Between Nothingness & Eternity” è un live ed è in pratica il canto del cigno ufficiale della prima versione della Mahavishnu (recentemente è stato pubblicato l’interessante “The Lost Trident Session” registrato comunque in quei mesi del 1973); tutto sommato questo live, a parte qualche pregevole virtuosismo, non è poi un granché. Malumori derivanti da incomprensioni di carattere sia umano sia musicale portano al disfacimento di questa formazione. Nel 1974 McLaughlin si presenta con una formazione del tutto rinnovata, con Ralph Armtrong, bravissimo e giovanissimo bassista di colore, con Michael Walden (poi Narada), un altro giovane di colore e fortissimo batterista, con l’astro nascente del violino elettrico, il francese Jean Luc Ponty, e con Gayle Moran alle tastiere. Ma non è finita qui, abbiamo pure tre archi e soprattutto la London Symphony Orchestra. Il disco “Apocalypse” è però un po’ ambiguo e frammentato da una non felicissima fusione dell’orchestra con il gruppo elettrico; ciononostante ci sono dei grandi pezzi di bravura da parte di tutti. Da segnalare soprattutto la grande prestazione di Armstrong con il basso fretless in “Hymn To Him”, e qualche tratto di buona composizione. Nel 1975 la Mahavishnu Orchestra pubblica un altro grande disco, stilisticamente vicino agli stilemi ed alla qualità di “Birds Of Fire”, forse anche superiore: “Visions of the Emerald Beyond”. La formazione di base rimane la stessa del precedente con aggiunta solo con una piccola sezione fiati e di archi; il disco è molto eterogeneo ma allo stesso tempo compatto e agile. Per certi versi porta alle estreme conseguenze il discorso intrapreso qualche anno prima da McLaughlin: una fusione totale di elementi musicali pure molto lontani tra loro come ad esempio il funk e la musica classica. Questi elementi sono sia presi singolarmente, quindi composti, suonati e inseriti insieme in un disco (“Can’t Stand Your Funk”e “Pastoral”), sia mescolati insieme realizzando brani peculiari che racchiudono tutte le sfaccettature di questi generi così differenti (“Eternity’s Breath Part 2”, “Lila’s Dance” e “Cosmic Strut”).
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"Lo stile chitarristico di McLaughlin è intriso di velocità e potenza dettate da un’urgenza espressiva fino allora sconosciute in un chitarrista..."
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"Di Meola porta alle estreme conseguenze il discorso intrapreso qualche anno prima da McLaughlin: una fusione totale di elementi musicali molto lontani"
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Ed è questa l’alchimia magica che McLaughlin, come tutti i giganti dell’arte, riesce a realizzare per la maggior parte del suo repertorio e che rende veramente unici i suoi brani; è in possesso della conoscenza idiomatica necessaria che gli permette tutte le coniugazioni occorrenti a fondare nuovi linguaggi a sua volta. L’anno successivo (con Stu Goldberg alle tastiere e senza Ponty) vede la luce “Inner Worlds”, l’ultimo disco della Mahavishnu Orchestra. È un lavoro discontinuo con delle coordinate del tutto diverse dai precedenti dischi. La costante è quindi quella della linearità che il chitarrista esplora mettendo chiaramente in rilievo le due facce di questa stessa medaglia: un'interessante linearità primitiva e magmatica, e quella (purtroppo) canzonettara. Ci sono delle caduta di tono proprio a fronte dei pezzi cantati pure non particolarmente riusciti (“In My Life”, “Gita”, “River Of My Heart”); sono appena discreti il breve pezzo funkeggiante “Planetary Citizen” e “The Way Of The Pilgrim”, impreziosito da un bellissimo assolo rocklirico del chitarrista. Meno male che con l’altra faccia della medaglia McLaughlin torna a donarci qualche felice momento rifacendosi a qualche esperienza precedente, sia di derivazione davisiana-santaniana (“All In The Family”, “Miles Out” e “Inner Worlds Part 1&2”), sia misticorientale (“Lotus Feet”). Tra l’altro in questo album McLaughlin è alle prese con una delle primissime chitarre sinth disponibili. Ma fermiamoci un momento perché proprio in questo stesso anno (siamo nel ’76) è pubblicato il primo disco solista del nuovo virtuoso della chitarra: il giovanissimo Al Di Meola già messosi in luce in tre dischi jazz- rock dei Return To Forever del grande tastierista-compositore Chick Corea. Di Meola aveva fatto scalpore quando fu chiamato da Corea nel 1974 per sostituire il bravo Bill Connors per dei concerti e la registrazione del disco “Where Have I Know You Before”. Non aveva ancora venti anni e quindi possedeva poca esperienza; aveva studiato con degli insegnanti privati e nella scuola di musica Berklee di Boston, ma subito dimostra di saper suonare con scioltezza le difficili parti scritte da Corea esibendo un contegno solistico d’assoluta maturità. Di Meola crebbe ascoltando Larry Coryell, Doc Watson, Kenny Burrell, George Benson, la musica classica e il rock in genere; in particolare gli piacevano il “chitarrismo” di Clapton e di Page. Di Meola ebbe più spazio chitarristico soprattutto nel disco “Romantic Warrior” che sfruttò esibendosi in uno stile velocissimo ma pure intenso e vivo, inventando quella tecnica a corde stoppate che è il suo marchio di fabbrica, accentuando così la percussività e la dinamica del suo suonato. Pure il suono è ancor più di matrice rock rispetto a quello di Mc Laughlin. Ma è con il suo primo disco ”Land Of The Midnight Sun” che il pubblico più attento e appassionato di brani complessi ma spumeggianti e della chitarra virtuosistica, si rese conto che una nuova stella era nata; il disco vendette molto bene, considerando il genere musicale strumentale poco incline a compromessi d’accondiscendenza commerciale. In ogni caso quasi tutti rimasero turbati dal suo virtuosismo poiché Al lo univa ad un gran gusto e sapienza pure compositiva: aveva solo 22 anni! La musica di Al Di Meola è più lineare di quella della Mahavishnu Orchestra, conseguente da quella dei Return To Forever quindi anche più latina.
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Pure il chitarrismo dimeoliano è più lirico e levigato di quello maggiormente impressionistico e sorprendente di McLaughlin: Al è potentissimo ed inesorabile nella sua dizione e articolazione musicale, ama poco swingare e terzinare ma è ricchissimo di dinamiche e spunti ritmici. Insomma le differenze sono pure di ordine geografico: più contorto e geniale il britannico con screziature musicali prog, più semplice e diretto con tendenza alla melodia l’italo-americano! McLaughlin quindi è più incline ad inserire la chitarra come elemento (ovviamente importantissimo) delle sue composizioni, mentre Di Meola tende più ad utilizzare le composizioni come sfondo (seppur lussuosissimo) per la sua chitarra che risalta quindi di più. Tuttavia la strumentazione è simile per i due: chitarre Gibson o simili, ampli Marshall o Mesa/Boogie; per le sortite acustiche si affidano all’emergente marchio Ovation. Di Meola si fa aiutare da amici e colleghi in questo suo primo disco, infatti troviamo molti musicisti eccelsi, ossia il tastierista Barry Miles, Lenny White e Stanley Clarke (ritmica dei Return To Forever), James Mingo Lewis (ex percussionista dei Santana), e due grandi bassisti: Jaco Pastorius, che è tuttora per moltissimi il bassista per antonomasia, e Antony Jackson, che si affermerà come un caposcuola solo il decennio successivo. Per finire sono presenti altri due batteristi, l’ottimo Alphonse Mouzon e il sopravvalutato Steve Gadd. Chick Corea suona un suo bel brano in un duetto tutto acustico con Di Meola. L’anno successivo il chitarrista dà alle stampe quello che è considerato il suo disco più riuscito e completo: “Elegant Gipsy”. In effetti la produzione si è affinata e l’attenzione per i dettagli si è acuita facendo acquisire spessore in piani sonori e sfumature di colori, ma facendo perdere quella intensa voglia di affermazione effervescente, sanguigna, pure muscolare del primo disco: è la stessa differenza che passa appunto tra il primo ed il secondo disco della Mahavishnu Orchestra. La gradazione di latinità in questo disco è ancor più accresciuta e sin dal primo brano “Flight Over Rio” è chiara e manifesta. Si prosegue con “Mediterrean Sundance”, straordinario duetto acustico con il grandissimo Paco De Lucia, divenuto poi un classico brano di chitarra per quelli "bravi", e l’altro “hit” “Race With Devil On Spanish Highway”, brano aggressivo e composito. Quest'ultimo Al lo ha riarrangiato e riproposto parafrasando il titolo (Turkish al posto di Spanish) e duettando con Steve Vai in un disco del ’98 chiamato “Infinity Desire”. C'è poi “Midnight Tango”, ballata melodica e romantica (che poi però si trasforma), che doveva ospitare un altro duetto e che forse avrebbe potuto passare anch’esso alla storia se solo Carlos Santana si fosse liberato per tempo dagli impegni che lo pressavano per riuscire di suonare con il giovane Di Meola. C’è spazio comunque per “Elegant Gypsy Suite”, lungo, articolato e bellissimo pezzo di jazz-rock latineggiante che chiude il disco e fa ben sperare per il futuro.
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"La musica di Al Di Meola è più lineare di quella della Mahavishnu Orchestra, conseguente da quella dei Return To Forever quindi anche più latina"
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"A ben vedere questi primi tre dischi di Di Meola hanno delle coordinate schematiche sempre rispettate con minime varianti..."
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La promessa è rispettata e il seguente “Casino” del ’78 non delude: i suoni e la produzione si fanno ancor più sofisticati, donando eleganza alle già raffinate composizioni di Di Meola; c’è un poco di affettazione a causa dei servigi batteristici dell’impacciato e rigido Steve Gadd: poco propulsivo e fantasioso rende i brani ben più pesanti e stucchevoli di quello che sono come scrittura. Fortunatamente le percussioni di Mingo Lewis sono portate molto alla ribalta, rimettendo un po’ le cose a posto quindi restituendo vivacità ritmica e colore sonico alle composizioni. In “Casino” ci sono solo sei composizioni e sono tutte bellissime, con una menzione particolare per l'affascinante “Egyptian Danza”, l’arrangiamento di “Senor Mouse”, bellissimo brano di Corea già pubblicato in un disco dei R.T.F. (ma con Bill Connors), il duetto acustico di Al con se stesso “Fantasia Suite For Two Guitars”, e per il lungo, raffinato e complicato “Casino”. A ben vedere questi primi tre dischi hanno delle coordinate schematiche sempre rispettate con minime varianti: pochi brani (sei) e distribuiti tra una specie di suite complessa ed articolata, uno meno laborioso e più diretto (comunque complicato), uno o due pezzi ancor più semplici, uno o due brani che comprendono un duetto acustico o comunque pezzi per strumenti acustici e la ballata. Ritroveremo questi tratti e schemi pure nel bel doppio album pubblicato nel 1980 (“Splendido Hotel”) che quindi poco aggiunge alla brillantissima vena e carriera di Di Meola ormai riconosciuto come un guitar hero un po’ da tutti e che ha prima affiancato e poi sostituito McLaughlin nella mente e nel cuore degli appassionati di musica sofisticata e di velocissime vibrazioni chitarristiche.
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Nel frattempo il dopo Mahavishnu Orchestra McLaughlin lo vive costituendo un quartetto acustico chiamato Shakti (con musicisti indiani, due percussionisti e un violinista), che era in pratica già attivo nel ’75; infatti questo stesso anno registrò un concerto ricavandone un disco (“Shakti”) pubblicato nel ’76. Seguirono nel ’77 altri due dischi, “A Handful Of Beauty” e “Natural Elements”, poi anche questa esperienza terminò. La musica di Shakti è fortemente legata al ritmo propulsivo ed estremamente variegato delle percussioni e delle improvvisazioni melodiche da parte di L. Shankar e Mc Laughlin. Il chitarrista si produce in scatenati quanto ispirati assoli, complice una straordinaria chitarra acustica realizzata per lui che è provvista di una serie di corde poste trasversalmente che vibrano per simpatia dando luogo ad un alone sonico tipico degli strumenti indiani. Pure le percussioni improvvisano ritmi e quant’altro su basi armoniche modali quindi molto statiche, e i temi o gli obbligati sono spesso fulminei e rocamboleschi, degni della miglior tradizione Mahavishnu. Ma è tempo di ritornare alla chitarra elettrica e John per “Electric Guitarist” (’78) chiama a raccolta tutti i suoi amici (anche Santana) i quali ben volentieri accolgono l’invito accompagnando il chitarrista per vecchi sentieri, ma aiutandolo pure a tracciarne di nuovi, che McLaughlin percorrerà nel disco “Electric Dreams” dell’anno successivo. Questo disco è più omogeneo e denso di spunti notevoli pure chitarristici come in “The Unknow Dissident”, dove ci sono addirittura tratti soul. Ma gli anni '80 sono giunti e finalmente McLaughlin e Di Meola s’incontrano e si scontrano con un terzo eccelso chitarrista che risponde al nome di Paco De Lucia, tenendo una serie di concerti alla fine del 1980; uno di questi fu registrato diventando il famoso disco “Friday Night In San Francisco”. In realtà Al Di Meola si aggiunse in seguito al duo Mc Laughlin-De Lucia, i quali erano il denominatore comune del trio che a volte ospitava Larry Coryell o Christian Escoundè a volte Di Meola (quindi con un rituale simile all’odierno G3). Il disco ebbe un grande successo e di lì quindi una serie di concerti tutti affollatissimi con il pubblico in delirio per i tre virtuosi (il sottoscritto era presente a quello di Roma che fu un trionfo). Il disco è spettacolare, plateale, entusiasmante e, seppur suonato in maniera virtuosistica, i tre non dimenticano quasi mai la comunicazione data anche da quella classe innata che hanno. Ma “Friday” è pure di spessore poiché stiamo parlando di tre grandi compositori e improvvisatori, capaci quindi di gestire al meglio e con molto gusto tanto le cascate di note velocissime quanto le pause, le dinamiche e i loro intrecci.
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"La musica di Shakti è fortemente legata al ritmo propulsivo ed estremamente variegato delle percussioni e delle improvvisazioni melodiche..." |
""Friday Night" è spettacolare, plateale, entusiasmante e, seppur suonato in maniera virtuosistica, i tre non dimenticano quasi mai la comunicazione..."
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I tre registrano e pubblicano nel 1983 un buon disco “Passion, Grace and Fire” dove sicuramente smussano l’aspetto virtuosistico. Comunque McLaughlin negli anni '80 proseguirà la sua carriera con vari onorevoli dischi tra cui segnaliamo il pressoché acustico-jazz-latin-fusion “Belo Horizonte” (’81) con ospite De Lucia e “Mahavishnu” (’84) che cerca (e in parte ci riesce) di riesumare i fasti fenomenali ma oramai convenzionali del suo vecchio gruppo facendosi aiutare dall'inimitabile Cobham. Di Meola dopo un paio di dischi (“Electric Randevouz” e “Tour De Force Live”) cambia strada, s’innamora di alcune soluzioni melodiche e soniche di Pat Metheny e sperimenta connubi con macchine iper-tecnologiche come il Synclavier, Farlight, guitar sinth, batterie elettroniche eccetera, approdando in ogni caso ad una musica molto diversa, più acustica, lenta e riflessiva, pubblicando quindi dei rispettabili dischi: “Scenario”, “Soaring Through A Dream” e “Cielo e Terra”. A cavallo tra gli anni '80 e '90 inizia un nuovo ciclo con un progetto (World Sinfonia) sempre acustico e di rara raffinatezza, con dentro moltissime radici ed influenze, la maggiore delle quali sono del grande compositore-fisarmonicista Astor Piazzola.
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Dunque abbiamo una musica sempre di matrice latina ma con derivazioni diverse (tango) e soprattutto mescolata con tantissime sfumature etnico-esotiche in una mirabile proporzione tra l’ispirazione-espressione, la scrittura compositiva e l’improvvisazione. Di Meola ha comunque pubblicato un paio di dischi più elettrici e vicini al suo fare musica degli anni ’70: il discreto “Tirami su” (’87) e l’ottimo “Kiss My Axe” (’91). L’amore di Al per la musica acustica, sofisticata e a volte intima, non si sopisce e per tutti gli anni '90 si dedica al progetto World Sinfonia con risultati assolutamente apprezzabili, di grande eleganza; pubblica pure un paio di dischi (“Orange And Blue” e “Infinite Desire”) più stereotipati (per lui), comunque sottostimati ma che invece contengono diversi spunti di pregio. McLaughlin nel frattempo non rimane a guardare e nei ‘90 realizza vari dischi e progetti con la consueta bravura e intelligenza musicale, ma sembra più legato di Al Di Meola al passato. Testimonianza di ciò sono i dischi “Time Remembered: John McLaughlin Plays Bill Evans” (’93) e “The Promise” (’95). Nel primo John rivisita, come omaggio all'eminente pianista tanto amato e con una formazione a più chitarre, alcuni tra i brani più belli di Evans; nel secondo John (come nel lontano “Electric Guitarist”) chiama a raccolta molti dei suoi amici-colleghi (tra cui De Lucia e Di Meola) per confezionare comunque un bel disco. L’anno successivo c’è la reunion con Di Meola e De Lucia con tanto di CD, e nel ’99 pubblica “Remember Shakti”. Lungi da noi affermare che l’eccelso McLaughlin si sia involuto, ma negli anni ’90 non ha aggiunto molto a tutto quello aveva già fatto, che è stato moltissimo, lui che forse è il chitarrista-compositore più completo della storia: genio inventivo che sposa felicemente scienza e metodica applicazione. McLaughlin ha percorso (e non soltanto sfiorato o incrociato) moltissime strade musicali (jazz, rock, blues, fusion, classica, flamenco, orientale) con una disinvoltura tecnica, un’ispirazione ed un gusto senza precedenti, inventando e suonando veramente come nessun altro, con tutti gli annessi e connessi musicali sia di scrittura sia d’improvvisazione strumentale, mantenendo sempre un carattere peculiare e sempre riconoscibile, non di certo dato dalla semplice ripetizione dei propri pattern e lick, ma da un vero e proprio stile che si è formato intensamente e seriamente nel corso degli anni!. McLaughlin ha trovato il sublime equilibrio tra l’idea e la forma, tra la ricerca tecnica e l’espressività. In tutti gli anni ’90 la sua tecnica e lucidità non si è appannata: le sue esibizioni con il fantastico percussionista Trilok Gurtu o con il supervirtuoso polistrumentista Joe Di Francesco, confermano ciò! Ed è di questi mesi il nuovo ed ambizioso CD “Thieves And Poets”. Nel frattempo tutti e due i chitarristi hanno abbracciato la chitarra semiacustica a cassa alta ed abbandonato la Ovation favorendo suoni meno personali ma più puri e acustici appunto: i furori rock degli anni giovanili si sono di molto attenuati! Di Meola dal canto suo ha inventato di meno ma forse nel corso degli anni si è sviluppato di più, coniugando benissimo il suo grande chitarrismo con una scrittura degna dei grandi autori: è in ogni caso l’unico, in quanto a completezza tecnica e sofisticatezza compositiva, che si può accostare a McLaughlin. Il suo recente “Flesh On Flesh” conferma una volta di più le sue caratteristiche, pur non aggiungendo un granché di nuovo a quello che aveva già fatto. Beh! Forse l’uso della Fender Stratocaster…
John McLaughlin e Al Di Meola sono due protagonisti del mio libro Eroi Elettrici.
John McLaughlin e Al Di Meola sono due protagonisti del mio libro Eroi Elettrici.