Articolo pubblicato su Axe Magazine n.27 novembre 1998
La pausa: il sale della nostra cucina... di Carlo Pasceri Per togliere ogni dubbio, la pausa, come recita la nuova enciclopedia della musica Garzanti, è un ”momento di silenzio in una musica, inteso ora come una reale percezione d’ascolto, ora come una prescrizione esecutiva”. Il linguaggio dei suoni è senz’altro astratto, non è concettuale o figurativo; quindi niente di più astratto di una pausa in musica! Ma questa sublimazione dell’astratto nell’arte musicale è di fondamentale importanza.
Credo che siamo tutti d’accordo quando Igor Stravinsky (forse il più celebrato compositore di questo secolo), afferma: “Poiché ogni musica è una serie di slanci e di riposi, è facile intendere che l’accostamento dei poli d’attrazione determinano, per così dire, il respiro della musica”. Quindi una musica senza pause è un po’ come andare sott’acqua in apnea; una musica fatta tutta di slanci può facilmente essere piatta. C’è subito da rilevare che per quanto riguarda il mondo chitarristico degli ultimi trenta anni, si possono tracciare agevolmente delle coordinate piuttosto precise. Nei riff e negli interventi solistici dei chitarristi anni “70”, contrariamente a quello che ci aspettavamo, la pausa non era molto sfruttata; ma questi ultimi possedevano delle dinamiche e inclinazioni melodiche che li aiutavano a non affaticare il discorso musicale. Negli anni “80” prima, ma soprattutto nei “90” poi, il suonare si è sempre più infittito di note a scapito delle pause, tuttavia le dinamiche esecutive e l’elemento melodico non sono cresciuti di pari passo. Si discostano da questa tendenza un po’ tutti i chitarristi rock-blues. Infatti, hanno fatto e fanno largo uso di momenti di silenzio nei propri assoli, o comunque di notevoli slanci e riposi, ponendo l’accento così sul tratto peculiare e irrinunciabile del blues di “domanda e risposta”. In particolare, David Gilmour e Carlos Santana, anche se non esattamente in ruolo nelle milizie dei chitarristi blues, ma proprio per questo ancor più degni di nota, hanno fatto della pausa, sommata ad altre qualità, un loro speciale marchio che ha contribuito a distinguerli. La loro originale costruzione del fraseggio e dell’assolo è sicuramente in debito con l’uso sapiente di preziosi silenzi, facendo respirare la musica… e noi! Un discorso a parte lo merita Jeff Beck che con il suo stile originalissimo si equilibra per quanto concerne le pause, slanci e riposi, in un modo particolare: i suoi interventi solistici sono spesso dei flash infarciti da molte pause, ma quando si lancia in un assolo più standard, difficilmente si concede dei silenzi. La principale “controindicazione” pratica e psicologica nell’uso delle pause, risiede nel pericolo di spezzettare troppo il fraseggio, quindi bisogna avere una visione d’insieme dell’assolo molto lucida, altrimenti (a meno che non lo si voglia) si rischia l’effetto contrario dell'agognata fluidità musicale; sicuramente si otterrà un respiro… ma asmatico! Ho prima detto controindicazione psicologica perché spesso una pausa può essere scambiata per un’incertezza sul da farsi in quel momento, e c’è da notare un uso piuttosto diffuso di delay e d’irreali riverberi che contribuiscono a non lasciare isolate le note un po’ insicure, e magari coprire qualche magagna. Chitarristi che provengono da aree orientate verso il jazz hanno una naturale predisposizione verso le pause; vuoi per la lunghezza e l’oggettiva difficoltà nel compiere assoli nelle complicate strutture armoniche jazz, vuoi soprattutto per l’emulazione degli strumenti a fiato e della percussività del pianoforte, veri protagonisti dell’età d’oro del jazz. Chitarristi come John Scofield o Scott Henderson, solo per citarne due tra i più noti, rendono espressivo, con un uso spregiudicato delle pause (ma non solo), il fraseggio spezzato e composito di un tema o assolo, facendo così risaltare un mood incalzante, quasi trhilling, che è parte integrante del loro esprimersi. Un chitarrista rock che si è distinto per una fluidità di fraseggio veramente notevole è Brian May; però un ascolto attento non ha fatto emergere un suo indicativo uso di pause. Stesso discorso per alcuni chitarristi degli anni “80” come Larry Carlton e Steve Lukather i quali, come May, ottengono il loro bellissimo “respiro” con una fluidità interna delle proprie frasi veramente notevole, il relax del loro modo elegante di “stare” sul tempo e delle dinamiche, sopperiscono brillantemente ad un insospettabile uso limitato di pause. Quindi non è assolutamente necessario usare diffusamente le pause per ottenere un buon assolo o riff, non vogliamo certo “criminalizzare” chi non ne fa uso, e se mai ce ne fosse stato bisogno, lo conferma la schiera di grandi chitarristi certamente non generosi di pause, come Jimi Hendrix, Jimmy Page, Frank Zappa, Van Halen, Frank Gambale. Invece, sorprendenti “pausaroli”, per quanto irruenti e super tecnici, sono Al Di Meola e Allan Holdsworth, che a differenza di un Greg Howe o Shawn Lane, suonano con qualche controtempo, spesso “silenziandosi” prima di affondarci con le loro mitragliate di note. Altri due chitarristi, più rocker ed emersi in questi ultimi anni, che possiedono un bel respiro musicale, sono Brett Garsed e T.J. Helmerich, i quali pur essendo dei grandi virtuosi non disdegnano piccoli momenti di silenzio che rilanciano e abbelliscono i loro notevoli fraseggi e assoli. Insomma le pause sono un po’ il sale della nostra cucina. Bisogna imparare ad usarle come elementi attivi del fare musica, senza rifuggirle per timore di apparire passivi ed insipidi quando andiamo a cuocere il nostro minestrone. Anzi... |
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