_Articolo pubblicato su Axe Magazine n.28 dicembre 1998
![]() I Dream Theater hanno iniziato la loro carriera come band hard-rock-progressive con sfumature neoclassiche; successivamente la band si è un poco spostata verso forme song più accattivanti, quasi FM. Gli ultimi due dischi del gruppo non sono stati all’altezza dei due capolavori “Images and Words” e “Awake”, e forse questo live conferma la crisi della band.
I cinque (recentemente è stato inserito il nuovo tastierista Derek Sherinian) hanno comunque raggiunto, anche individualmente, un'ottima popolarità, a fronte anche dell’ottima tecnica espressa (una menzione particolare per il batterista Mike Portnoy). I due CD sono lunghi (76 e 78 minuti circa) e ripercorrono il repertorio dei quasi dieci anni di vita del gruppo, ma la scelta dei brani privilegia le tracce delle ultime due uscite discografiche È singolare che con soli quattro dischi e mezzo all’attivo, visto che “A change of seasons” è composto per metà da cover di brani famosi pescati nello sconfinato mare rock, i Dream Theater hanno avuto l’esigenza di pubblicare questo secondo live, doppio per giunta, dopo quello del 1993 “Live at the Marquee”. La situazione si fa quasi imbarazzante quando andiamo ad ascoltare brani e assoli che già conosciamo bene, riproposti pedissequamente tali e quali (o quasi) agli originali. I Dream Theater hanno raccolto l’importante eredità di gruppi gloriosi come gli Yes e i Rush. A una più attenta analisi, l’elasticità e improvvisazione sembrano problemi comuni a questo tipo di gruppi; anche i Rush nei loro live suonavano le stesse cose registrate in studio, ma al gruppo canadese riconosciamo le attenuanti di un percorso creativo molto vario e l’esigenza di dimostrare che, pur essendo in tre, riuscivano a riproporre dal vivo, con lo stesso impatto, i brani dei dischi. I Dream Theater non hanno la carica innovativa delle band prima citate, ma hanno il merito di aver portato qualità, perlomeno tecnica, nel mondo neometallaro. Tuttavia non si può fare a meno di sottolineare i limiti creativi di questa band, che non si è evoluta, cristallizzandosi in quell’hard-rock pulito-pulito disseminato di stacchi al fulmicotone e complicati tempi dispari, che ora si sta involvendo in una blanda forma canzone pericolosamente vicina a stilemi da MTV. Qui abbondano le citazioni, da “Moby Dick” dei Led Zeppelin, e “Have a cigar” dei Pink Floyd, al “Volo del calabrone” (sigh!) di Rimsky-Korsakov, ma permane un senso di rigidità e prevedibilità. Due parole su John Pertrucci: non si riesce più a comprendere come possa essere osannato dalle folle, quando in tutti i modi ha dimostrato di essere un mediocre improvvisatore, e di non possedere un vero fraseggio (a parte lick e pattern). Il “John Petrucci guitar solo” è uno sfoggio tecnico ingenuo e autocelebrativo nemmeno troppo riuscito. Ad ogni modo bisogna riconoscergli un ottimo suono distorto e un trillo da gran mandolinista. ![]()
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