_Articolo pubblicato su Axe Magazine n.79 luglio-agosto 2003
A Brief Glimpse Of The Relentless Pursuit - Tribute To Pink Floyd (Horizons)
di Carlo Pasceri
Ho contato ben quarantuno (41) nomi di musicisti che partecipano a questo disco tributo e sono quasi tutti nomi di primo piano. Impossibile citarli tutti, ma sono in massima parte orbitanti nella galassia rock-fusion americana. Però almeno i chitarristi li cito: Steve Lukather, Robben Ford, Dweezil Zappa, Ronnie Montrose, Elliot Easton, Gary Hoey, Richie Kotzen, Bob e Bruce Kulick, Jeff Baxter e Jordan Berliant. Il CD è formato da 11 brani (per oltre un’ora di musica) pescati nel repertorio dei tre dischi dei Pink Floyd più commerciali: “Dark Side Of The Moon” del ‘73 (“Us And Theme”, “Any Colour You Like”, “Money” e Breathe In The Air”), “Wish You Were Here” del ’75 (Welcome To The Machine”, Shine On You Crazy Diamond” e “Have A Cigar”) e di “The Wall del ’79 (“Another Brick In The Wall, Pt II”, “Comfortably Numb”, Young Lust” e Run Like Hell”) . La rilettura dei pezzi è stata piuttosto rigorosa per quanto concerne le parti, anche se qua e là ne sono state tolte o aggiunte; in linea di massima i pezzi sono stati poco o nulla arrangiati con qualche piccola eccezione (“Welcome To The Machine” e qualche assolo di chitarra in più). Infatti, lo strumento nazionale americano è la chitarra, quindi questi non hanno resistito alla tentazione masturbatoria-esibizionistica, di fare assoli anche laddove in origine non ve ne fossero come in “Welcome To The Machine”, “Run Like Hell” e "Breathe In The Air". Si può pure soprassedere su questo, anzi, visto che siamo tutti chitarristi, ce ne potremmo addirittura compiacere: purtroppo sono di mediocre fattura, peccato! Pure la voce è uno “strumento” privilegiato dagli americani e seppur i produttori del disco, Bob Kulick (dei Kiss) e Billy Sherwood (degli Yes), abbiano chiamato dei validi cantanti, non sono stati all’altezza delle interpretazioni di Roger Waters e compagni. Dispiace in particolare notare che in quest’accozzaglia c’è pure Fee Waybill (cantante ed autore dei Tubes) e Chris Squire (Yes). Ma è la magia dei suoni, delle parti incastrate con precise dinamiche, la passione e il trasporto di creare atmosfere con la cura artigianale ed analogica (anche nell’accezione più estesa del termine), che manca del tutto a questo progetto e che invece in origine era il motore e fulcro dei Pink Floyd. Manca la drammaticità e la cupezza, il senso del racconto e del vissuto un po’ visionario, che per l’arte dei Pink Floyd era essenziale. Il livello del suonato di tutti i musicisti va dal modesto all’insufficiente; l’approssimazione e la pretestuosità, addizionata evidentemente ad una buona dose di presunzione, ha prodotto un disco che è una vera paccottiglia, con gli assoli di chitarra che in nessun caso sono più belli o semplicemente (e più diplomaticamente) comparabili a quelli di David Gilmour. Non è un caso che il brano più scandaloso di questo CD sia “Welcome To The Machine”, cioè quello in cui si sono sforzati di più nell’arrangiamento: il risultato è un pezzo reggaeato grottesco e insulso del tutto privato della potenza evocativa dell’originale. Invece il pezzo più riuscito è “Young Lust”, che guarda caso è uno dei più mediocri dell’intero repertorio dei Pink Floyd di quei dischi. Se ne devono fare una ragione: non basta prendere uno spartito, cantare a squarciagola, infarcire di assoli di chitarra distorta, alzare il volume della batteria e del basso per poter interpretare un brano di chicchessia, meno che mai di maestri del genere, può andare bene solo per correre veloci su una macchina decappottabile e andare a fare casino con gli amici ventenni (con il vento che non fa capire nulla).