Il terzo disco della Mahavishnu Orchestra, Between Nothingness & Eternity è un disco molto più interessante di quanto potrebbe sembrare: ha alcune singolarità. Quella che salta subito all’occhio è che consta solo di inediti: tre brani (naturalmente piuttosto lunghi). Pertanto non sono inclusi alcuni cavalli di battaglia come quasi sempre accade nei dischi registrati dal vivo. Si potrebbe pregiudizialmente pensare sia un disco un po’ raffazzonato, tanto per pubblicare qualcosa magari per contratto: il gruppo era pervaso da malumori e litigi, infatti, la prima versione della MO ebbe termine proprio con questo album, registrato al Central Park di New York nell'agosto del 1973 e pubblicato in novembre.
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Dopo dodici numeri trascorsi tra Stati Uniti e Inghilterra eccoci sbarcare finalmente in Italia. Per la prima volta, infatti, ci occupiamo di un gruppo di casa nostra, la PFM, forse il più grande, quasi certamente il più celebre al di là dei nostri confini. Per la prima volta, inoltre, l’argomento di un nostro libro è stato scelto dai lettori attraverso un sondaggio sulla pagina Facebook di questa collana. A gran voce, con un risultato pressoché plebiscitario, ci è stato indicato il nome del gruppo milanese (a scapito di Lucio Battisti – ma gli ammiratori del musicista di Poggio Bustone non disperino). Infine, anche la copertina del libro è stata selezionata con lo stesso metodo.
Nel Rock e dintorni ci sono brani gemma di ogni tipo, dalla ballata più lirica all’assalto metallico più feroce, dalla suite più complicata a Waves Within. Questa gemma strumentale è di Santana e contenuta nel suo capolavoro, Caravanserai del 1972, ed è in sostanza una base per un lungo assolo di chitarra elettrica. Pezzo poco celebrato anche dai fan. Come tipologia di brano Waves Within ha pochissimi precedenti e successivi: meno di quattro minuti di cui quasi tre di assolo, senza tema melodico, soltanto quattro accordi e con una forma monoblocco. È una prodigiosa alchimia tra Europa, Africa, Stati Uniti e America latina, tra il Rock, il Jazz e le musiche etniche.
La stragrande maggioranza dei brani di successo sono più che semplici, però quelli che si usurano meno, diventando dei “classici”, spesso hanno delle caratteristiche occulte. Questo è il loro segreto: avere dei segreti. Il piano su cui sono erette la stragrande maggioranza delle musiche di successo è quello assiale dell’occidentale “tonalesimo” con la parificazione ritmico-metrica, pertanto tutto ciò che devia da questo, con vari livelli di gradualità, struttura ulteriori tensioni e quindi rende più dinamica la forma. Anomalie creative.
All’alba del 1972 (gennaio) è pubblicato il primo disco del nostro maggior gruppo Rock, la Premiata Forneria Marconi. Si chiama Storia di un Minuto e contiene sette brani (tra cui due pubblicati nell’autunno precedente in forma di 45 giri: Impressioni di Settembre e La Carrozza di Hans). La PFM è costituita da Franco Mussida, chitarrista e compositore delle musiche, Mauro Pagani, flautista, violinista e autore dei testi*, Flavio Premoli, tastierista, Giorgio Piazza, bassista e Franz Di Cioccio, batterista; tutti cantano.
Il 19 febbraio 1971, gli Yes pubblicano il loro terzo disco The Yes Album. Il gruppo inglese riparte da questa importante opera dopo due dischi più che buoni (Yes e Time And A Word) pubblicati precedentemente, interessanti sotto vari profili. Entra in squadra Steve Howe al posto del pur bravo Peter Banks. Howe sarà colui che incarnerà il chitarrista di riferimento in quanto a versatilità ed espressione “pirotecnica” sia per quanto concerne i generi e stili chitarristici sia di suoni e modi d’impiego della chitarra (e i suoi derivati cordofoni: lap steel, mandolino ecc.). E’ il chitarrista di stile più schiettamente americano di tutti i suoi coevi colleghi. Howe contribuirà anche come compositore. (All'opposto questo disco sarà l’ultimo del tastierista Tony Kaye, sostituito da Rick Wakeman dal successivo disco Fragile)
Black Dog, uno d ei brani di maggior successo dei Led Zeppelin, apre il loro quarto disco (Zoso) pubblicato nel 1971. È musicalmente un pezzo paradigmatico, quindi interessante.
Nulla in musica è casuale o effetto di qualche fulminazione divina; anche ai più bassi livelli è necessario un progetto e una messa in opera che solo dopo anni di specifico apprendistato cognitivo e strumentistico può produrre decenti risultati. Però è fuor di dubbio che il Rock in tal senso è un genere efficientissimo, soprattutto quello a grandissima trazione chitarristica, di derivazione più schiettamente Blues e R&R: con pochissimo si ottiene moltissimo. Impatto formidabile, affascinante.
Jethro Tull, prima del Prog. Sarebbe potuto essere il titolo di questo volume 12 di Dischi da leggere. Sì, perché del gruppo britannico abbiamo scelto tre dischi che formano un corpus particolare (la trilogia celtico-sassone, come la definisce Carlo Pasceri nel libro), uno l’evoluzione dell’altro fino a sfociare nel capolavoro Aqualung che, lo diciamo sin da subito, non è un disco Progressive, come da sempre affermato da certa critica “distratta”: non lo è nelle forme e nei contenuti musicali realizzati dai JT. Ma avrete modo di approfondire questo e molto altro all’interno del volume.
I King Crimson con il loro primo disco “In the Court of the Crimson King” (10 ottobre 1969) hanno elaborato in modo sofisticato gli elementi più semplici di un certo fare Rock, immettendoli in un involucro diverso. Hanno prodotto in questo modo un disco che diverrà epocale. Questa è stata un’opera importantissima perché ha indicato ad altri un percorso di formalizzazione stilistica dei contenuti strutturali, sintetizzando e confezionando benissimo quello che loro avevano inserito dentro il contenitore, che era effettivamente poco e non così originale, ma che sembrava tantissimo e nuovo.
Miles Davis, figura musicale incomparabile di trombettista, compositore e leader di una pletora di gruppi di tutte le specie, attraversando quasi mezzo secolo del secondo Novecento, ha innovato in modo pressoché continuo. In questo brevissimo profilo si pone l’accento sull’aspetto strumentistico, tentando di trarre alcune conclusioni…
Castello di Carimate, dintorni di Como, autunno 1979, si sta registrando il terzo disco del giovane ed emergente cantautore napoletano Pino Daniele, quello che lo proietterà nell’empireo della musica italiana: Nero A Metà. I dischi immediatamente successivi eleveranno Daniele ancor più, confermando che non solo è nata una stella, ma che splende sicura come quella polare; allo zenith. Il disco è intriso di qualità a tutti i livelli; sarà un capolavoro.
Siamo giunti all’undicesimo volume di Dischi da leggere. Undici, come gli album realizzati durante la loro storia dai Soft Machine: un gruppo-non gruppo, senza un vero e proprio leader con cui identificarsi e dietro il quale schermirsi, un collettivo con un’idea precisa sin dai loro esordi nella provincia inglese. Sempre diversi, anno dopo anno, ma sempre uguali nell’ostinata ricerca della musica di grande qualità. Qualche caduta di tono, specie negli ultimi anni, perdonabile considerando gli enormi esiti raggiunti in precedenza e le gravi defezioni che via via hanno costellato la vicenda di questo meraviglioso ensemble musicale.
Tribali e stellari, sogno e realtà, ambienti claustrali e scenari smisurati, abissi di luci e ombre, il dissolversi di mondi da fughe del tempo… Ecco, i Pink Floyd sembra rappresentino, e non occasionalmente, un futuro primitivismo, talvolta cupo, come i film 2001: Odissea nello Spazio o Il Pianeta delle Scimmie: abitanti narratori di una Terra desolata e devastata, non dominata da esseri umani. Loro, perfetti e convincenti, privi di accademismi e automatismi utili per raggiungere agilità e nettezze sonore, ma che probabilmente sarebbero andate a discapito di quelle manifestazioni naïve che offrono un’impressione di spontaneismo genuino nella finalizzazione espressiva delle loro opere.
Miles Davis qualche mese prima dell’agosto 1969 (in febbraio), per il disco In A Silent Way, aveva cominciato massicciamente a sperimentare soluzioni elettroniche e manipolazioni in post-produzione, sempre con l’aiuto del fidatissimo Teo Macero. In Bitches Brew, quell’esperienza è portata alle estreme conseguenze. E la sua musica davvero si può pregiare di attribuirsi appunto l’aggettivo (all’epoca abusato e forse ancora oggi) di “sperimentale”.
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Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Febbraio 2019
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