Rammento bene, perché in gran parte mi deluse, mi aspettavo altro; ero entusiasta del suo primo disco (l’omonimo del ‘76), e ancor più dei Weather Report di Black Market ed Heavy Weather.
Ma Word Of Mouth era altro, e pur essendo già alquanto abituato ai complicati dischi jazz-rock, la sua musica mi sembrava stranamente complessa, sfuggente, poco focalizzata; non la compresi e quindi poco mi piacque.
Benché il perno su cui ruota sovente il disco sia il basso, il coprotagonista è Toots Thielemans, con la sua armonica a bocca che volteggia meravigliosamente leggera tra melodie ed estrosi interventi; in subordine Herbie Hancock coi suoi soli di pianoforte.
Solo sette brani, ma di notevole vastità musicale e di differenti durate: brevi (di 3-4 minuti), lunghi (11-12) e medi (5-6).
Cinque di Pastorius e due clamorosi arrangiamenti di composizioni diversissime: una di J. S. Bach, l’altra di un pezzo mccartneyiano dei Beatles**.
Tuttavia, ci sono un paio di cose che li connettono tutti.
Non c’è la sfrontata sovraesposizione della “ritmica”, segnatamente del basso di Jaco (pure intesa come presenza volumetrica – mai accentuata come invece spesso era stata in passato); però c’è innervata potentemente una coralità di "voci" che s’accumulano e s’inseguono, come a volte accadeva con Duke Ellington e Mingus.
Non ci sono le tipiche derive stilistiche americane (tantomeno strutturali) di Samba, R&B, Bossa Nova, Funk presenti nel precedente e acclamatissimo suo disco omonimo.
Dunque, ciò che lo rende omogeneo è la quasi totale assenza di queste derive, con le loro focalizzatrici “messe a terra” (innervate solitamente in Pastorius anche nelle sue parti di basso), in favore della pressoché costante presenza di dialoghi: a volte laici, come di caotiche contingenze di affollati mercati, altre più sacrali, sciamanici, invocativi.
Word Of Mouth si apre con Crisis, il brano più traumatico e innovativo, drammatico, quasi free: su una rapidissima e lunghissima sequenza di una linea di basso sinth a mo’ di walkin’ e batteria swing s’innestano e sovrappongono almeno una mezza dozzina d’interventi solistici. Nessun tema melodico: formidabile.
Liberty City risulterà essere il pezzo più convenzionale del disco: organico enorme, riff di basso, vari temi in contrappunto, assoli; troppo tirato alle lunghe (12 minuti).
La seconda parte principia con Chromatic Fantasy, una poco rigorosa interpretazione del primo minuto e mezzo circa di Chromatic Fantasia and Fugue di Bach, con Pastorius solitario al basso a esporre la parte.
Poi uno sconcertante sviluppo ethno-world, una delle cifre dell’intera opera.
Il lungo e conclusivo John and Mary (dedicato ai suoi primi due figli) è il brano al contempo più articolato e lirico (pur non essendo una ballad), per i semplici e reiterati temi melodici, gli interventi vocali - anche di bambini - e per quelli continui del sax soprano di Shorter.
C’è inserita circa a metà una sezione piuttosto diversa, alquanto complessa - pure con molti archi - che dopo un paio di minuti vira per riesporre l’andamento iniziale, e svilupparsi in vari modi con qualche ripresa tematica della sezione precedente, e concludersi in modo un po’ cupo.
Tuttavia, Word of Mouth ha rilevante personalità, e al contempo è eterogenea e compatta: matura espressione – per quanto mai gioiosa o spensierata – di un grande musicista, troppo precocemente avviatosi al tramonto, e purtroppo alla tragica scomparsa.
* La lista è lunghissima e non è specificato chi suona in quali brani: Wayne Shorter, Michael Brecker, Jack DeJohnette, Peter Erskine, Don Alias, Hubert Laws e Tom Scott i più noti.
** Blackbird ha per qualche verso un collegamento con Bach, perché la maniera di esporre simultaneamente la parte nei registri alti e bassi delle note pizzicate dalla chitarra è genericamente derivata dalla Classica (già nella musica medievale-rinascimentale).