E una semplicissima canzone, una hit di sessant’anni fa di due minuti, può far al nostro caso; può far comprendere anche a chi non ha alcuna istruzione musicale come la forma strutturale, il “contenitore” di melodie e accordi (le parti cosiddette introduzione-strofa-ritornello ecc.), divenga, allorquando non è quello solito, un fattore importante.
Far soffermare chi è a digiuno di grammatica musicale a un ascolto pure solo appena più attento e quindi consapevole di ciò che sta accadendo musicalmente, è compito arduo, tuttavia ci proviamo.
E una semplicissima canzone, una hit di sessant’anni fa di due minuti, può far al nostro caso; può far comprendere anche a chi non ha alcuna istruzione musicale come la forma strutturale, il “contenitore” di melodie e accordi (le parti cosiddette introduzione-strofa-ritornello ecc.), divenga, allorquando non è quello solito, un fattore importante.
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Una decina di anni fa un caro amico mi fece ascoltare la breve canzone Mad World, nella versione di Michael Andrews e cantata da Gary Jules: me ne innamorai immediatamente.
È un brano dell’ottimo gruppo inglese Tears For Fears*, segnatamente composto da Roland Orzabal, originariamente pubblicato nel 1982. L’arrangiamento di Andrews fu pubblicato nel 2001, usato per la colonna sonora del film Donnie Darko. Le due canzoni come melodia, accordi e struttura non presentano diversità, per il resto divergono quasi totalmente. Comunque ebbero tutte e due successo. È cosa risaputa che la musica ha la speciale dimensione del tempo; il suo inesorabile fluire.
E tutti i musicisti, chi in modo più consapevole e dotto, chi meno, chi in modo abilissimo esecutivamente, chi meno, devono tenere in considerazione questo fattore fondamentale, determinante. Certamente per la stragrande maggioranza di chi ascolta ciò è alquanto ineffabile; infatti, al netto di quando si ascolta la musica per ballare (pertanto in maniera utilitaristica ci si sincronizza con la pulsazione dominante che è appositamente più che palese), sovente si presta attenzione ad altro: melodie, suoni, ecc.; sebbene questo non significhi che i ritmi siano snobbati, no, ma… Spirituale: proprio dello spirito, inteso come complesso e centro della vita psichica, intellettuale e affettiva dell’uomo.
Esercizio: qualsiasi atto con cui si addestri il corpo o si applichi la mente con lo scopo di svilupparne o conservarne le forze, l’agilità, l’efficienza. Così il vocabolario Treccani. Quindi anche la musica (verrebbe da dire soprattutto la musica) può esser sede e vettore di esercizi spirituali; e non solo facendola, ma pure semplicemente ascoltandola. Di solito nello scorrere della vita c’è il grigiore della normalità; ogni tanto l’essere coraggiosi o codardi.
E, sebbene ovviamente in primis parta da se stessi per se stessi, il comportamento non può non coinvolgere altre persone. Pertanto, al netto del neutro grigiore, si è o pro o contro il fare il bene altrui; prodi o vili. A volte peggio ancora, vili senza pudore: vigliacchi. Sì, country-bluegrass + bebop + classica + hard rock = Steve Morse.
Sì, scrivo ancora di un chitarrista; perché sono un chitarrista. Sì, perché non c’è un’altra categoria di musicisti che annovera così tanta propensione alla fusione di generi e stili. Così tanti compositori e/o titolari di dischi crossover che hanno innalzato il tasso qualitativo musicale, facendo ancor più grande la musica. Sono un chitarrista pure per questo. Sin dal secolo scorso con l’era elettronica e in questo secolo con l’era digitale, in progressione esponenziale, c’è stato, e c’è, un notevole ricorso alla manipolazione sonora, che ha caratterizzato moltissima musica.
L’elaborazione audio è divenuta un settore molto specializzato. Pochi sanno o rammentano che gli effetti applicati alla musica si dividono soltanto in due categorie: quella che del segnale ne altera l’intensità e quella che ne altera il tempo. Va da sé che possono coniugarsi. Sebbene non entreremo nei dettagli (tantomeno nelle - per me avvincenti - specifiche tecnologico-matematiche), tenterò di darne una descrizione di massima che possa suscitare interesse e soddisfare qualche curiosità. In musica l’uso della velocità c’è sempre stato, tuttavia mai come in questi nostri tempi.
L’avvento del web, di Internet e Youtube coi video che possono (chiunque sia l’autore) guardare milioni di persone, ha fortemente contribuito a esacerbare ciò. L’esagerato accento sull’individualismo strumentistico basato su esecuzioni particolarmente rapide ha contribuito a una pressoché totale aridità di proposte compositive di significativa qualità, ossia creatività. Naturalmente l’elemento visuale aumenta l’aspetto di mero intrattenimento del pubblico, facendo trascurare il resto che davvero conta in musica: vedere il “gesto” accresce notevolmente l’effetto dell’esecuzione in sé anche in termini puramente e brutalmente velocistici; e, soprattutto, distrae dal contenuto. Come per la chitarra nessuno strumento ha avuto così tante e diverse declinazioni nei vari generi e stili.
Storicamente, così tanti strumentisti diversi tra loro sia in assoluto sia all’interno di un genere come per i chitarristi non si riscontrano; e ciò che fa più impressione, almeno a me, è nel Jazz. E non soltanto nell’aspetto più evidente, quello timbrico, ma proprio nel linguaggio. Ancorché intorno agli anni 2000 si sia delineata una certa direzione nell’improvvisazione: l’influenza solistica di Pat Metheny, che pure prima era fortissima, prevale su tutte. Tutti hanno i loro brani musicali preferiti, quindi pure io.
La cosa particolare è che presto ho scoperto che tra i tantissimi pezzi che via via ascoltavo, dalla mia adolescenza in poi, le mie preferenze non di rado avevano un denominatore comune che andava oltre gli autori, i generi e gli stili musicali. Dapprima e soprattutto ho amato Black Napkins, A Night in Tunisia e Nardis (di Frank Zappa, Dizzy Gillespie e Miles Davis): un’attrazione che le decadi di anni trascorse non ha indebolito, è ancora potentissima. La “grammatica” musicale è per un verso molto semplice, per un altro parecchio complicata.
Semplificando, si può comprendere il processo generativo musicale pensando alle 13 note della scala Cromatica* come alle sillabe di un alfabeto. E alla scelta di una scala (Maggiore, Minore, Pentatonica ecc.) già come a una sorta di pre formattazione lessicale, cioè un insieme di vocaboli (lessemi), che pertanto hanno già qualcosa ben più “significativo” rispetto alle sillabe. In musica non di rado si parla (e si scrive) di dissonanza: ma cos’è la dissonanza musicale?
È invalso (anche in specifici manuali e testi musicali) intendere e applicare questo termine per esprimere spiacevolezza nell’ascoltare alcuni suoni, come per il rumore, ma essendo questa sensazione del tutto soggettiva e variabile nel corso del tempo, nelle abitudini e geografie dei popoli, questo concetto è poco utile, se non controproducente, per comprendere oggettivamente la dissonanza. Va da sé che la dissonanza è correlata con la consonanza.
Sin dalle scuole elementari tutti conosciamo la proprietà commutativa dell’addizione (e della moltiplicazione): cambiando l’ordine dei fattori (o addendi) il risultato non cambia.
E similarmente, in modo diffuso (anche tra sin troppi musicisti e insegnanti professionisti), si ritiene che la cosa decisiva delle note sia quali sono presenti indipendentemente dal loro ordine di successione. Cioè, scelta una scala di base p.e. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do, poco importa come saranno disposte le note (al netto di qualche minima variazione): la cosa fondamentale, a fronte dei secolari precetti del Sistema Tonale, è che siano quelle e non altre. E qui un paradosso. In musica, dopo i rudimenti tecnici per imparare a emettere note tramite uno strumento, la cosa cui subito si scontra chi vuole imparare a improvvisare e/o comporre è dare coerenza a una serie di note che non sia una mera esposizione di eserciziari, acquisiti durante gli addestramenti sullo strumento; o altrui invenzioni.
Se è vero come è vero che l’Europa (poi ’”Occidente”) è nella dimensione armonica della musica la prima della classe, anzi, la fuoriclasse, non avendo in pratica rivali a livello mondiale*, per la dimensione ritmica è l’ultima?**.
L’Africa, l’India, il Medio Oriente e in generale l’Est (anche dell’Europa) hanno nel ritmo una formidabile propulsione musicale, a noi sconosciuta. Ero un ragazzino con qualche brufolo e un incipiente mal adattamento scolastico all'indirizzo scelto per la scuola superiore quando ascoltai per la prima volta John McLaughlin: ne rimasi, naturalmente, molto colpito. Quasi mi stordiva la sua aggressiva velocità e reticolare complessità.
Alle profonde cause della sua grandezza giunsi molto più tardi, e molto faticosamente. “Incontrai” tale gigante, né rock né di facile ascolto, sia per la sua “fratellanza” con Devadip Carlos Santana sia per la sua gran reputazione; ovviamente attraverso i dischi del suo gruppo Mahavishnu Orchestra ma pure quelli solisti quali Extrapolation (1969), My Goal’s Beyond (1971) ed Electric Guitarist (1978)*. Tutte opere straordinarie, per specifici motivi differenti, correlate però da un’eccezionale creatività (e abilità esecutiva). Circa due mesi fa l’ECM ha pubblicato un album dedicato ad Arvo Pärt chiamato Tractus.
È una piccola antologia di brani del compositore estone arrangiati per coro e orchestra d'archi da Tõnu Kaljuste, dirigendo l'Orchestra da Camera di Tallinn e del Coro da Camera Filarmonica Estone. Potrebbe essere un’occasione per iniziare a conoscere questo musicista così tanto apprezzato anche da ascoltatori poco avvezzi alla Classica. The New Standard fu pubblicato da Herbie Hancock all’alba del 1996.
Oggi, 2024, sono passati quasi trent’anni; tanti quanto il tempo trascorso tra quel disco e uno dei Beatles o dei Cream. Ci permette di fare qualche riflessione e trarre alcune conclusioni. Fu suggerito dalla casa discografica Verve, che gli propose di realizzare un disco di canzoni pop-rock “jazzificate”. Similmente a ciò che avevano fatto negli anni ’60 Wes Montgomery e George Benson. Hancock, dopo un primo rifiuto, perché riteneva la proposta troppo smaccatamente commerciale, accettò di farlo. Da oltre mezzo millennio sì è progressivamente sviluppata una formidabile risorsa musicale: l’arpeggio melodico.
Da quando in Europa nel XVI secolo si è iniziato a teorizzare e usare gli accordi, pertanto a mischiarli con la polifonia medievale (basata su più linee melodiche scalari), quindi a svilupparli sempre più in sequenze nel XVII secolo, giungendo nel secolo successivo a fondare il Sistema Tonale. L’arpeggio melodico* è semplicemente suonare (o cantare) le note costituenti un accordo, una dopo l’altra senza far risuonare le precedenti (come nell’arpeggio armonico). Se in musica l’improvvisazione assoluta, totale, in sostanza non è riscontrabile, la piena modellizzazione e quindi pianificazione musicale sì.
Innumerabili esempi soprattutto nella Classica, ma presenti pure in altri ambiti (orchestre varie, Big band, Pop, Dance ecc.), ove è tutto o quasi predeterminato. Pertanto è l’amplissima e affascinante “terra di mezzo” che, per sommi capi, ci accingiamo a scoprire: l’invenzione musicale estemporanea, benché non totale. La cosiddetta improvvisazione, che risiede in massima prevalenza nelle parti di chi s’incarica di fare un solo |
Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Aprile 2024
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