Let’s Dance è un brano dell’omonimo disco pubblicato nel 1983, in cui è evidente la proficua “mano” del musicista-produttore Nile Rodgers, che ha affiancato Bowie per l’intera realizzazione del disco.
La particolarità di questa canzone è la manifesta osmosi dei caratteristici fattori musicali di quei tre decenni, in un’operazione tanto sfrontata e spavalda quanto sofisticata e azzeccata.
Un caleidoscopio temporale in forma di musica.
Il riff e la sezione melodica sono più ampie, e il ritmo non è così banale; beninteso che comunque il pezzo è parecchio semplice, ma...
Avviciniamoci a Let’s Dance.
Altresì c’è una piccola sezione fiati che punteggia in stile R&B di quegli anni: segnatamente rinvia al riff di Peter Gunn di Henry Mancini (1959).
Ulteriore elemento retró è la chitarra solista dell’emergente (poi divenuto noto) Steve Ray Vaughan, che interviene alla Albert King (uno dei suoi due riferimenti diretti - l’altro è Hendrix).
Invece, i fattori musicali più moderni e contemporanei (di allora) sono il trattamento timbrico, specialmente le ambienze (riverberi ed echi), e qualche parte di chitarra ritmica, fiati e batteria.
Saltano all’orecchio gli echi della chitarra (e tastiere) e del cantato di Bowie, ma non sono quelli tipici dell’era R&R chiamati slap echo (dei generici e ravvicinatissimi ribattuti), questi sono accuratamente distanziati a tempo con la pulsazione e molto evidenziati (pratica messa in atto non prima di fine ‘70/’80 - salvo eccezioni).
Per converso gli interventi solistici (tromba, chitarra e sax) sono piuttosto anecoici (pratica dagli ‘80 in poi).
La batteria (suonata da Omar Hakim) è trattata financo con particolari modalità di riverberazione e noise gate, offrendo una sofisticata sonorità, molto distante dalla naturalezza: negli ‘80 fu alquanto sfruttata.
Il groove di batteria, molto semplice - “settantiano” - con la particolarità di non usare il charleston; né funk né dance, è pop-rock.
Pure la tipologia delle armonie della prima sezione suonata a mo’ di riff è anni Settanta, come la parte del basso (per giunta doppiato dal sinth); mentre la sequenza armonica della seconda sezione è anni Sessanta (con sussidiario al ritmo pure il classico tamburello*).
Al netto del concetto a quale decennio musicale appartengano, un elemento interessante sono gli interventi solistici dei sax (tenore e baritono)**, perché sono jazzistici, e soprattutto sui generis.
Simultaneamente, si intrecciano, tra growl armonici ed espressivi e brevi linee***.
Per concludere, lui, Bowie: il suo cantato è affascinante, un’interpretazione magistrale densa di chiaroscuri; peraltro è patente la macro differenza tra la prima strofa e la seconda: un abisso.
Inoltre a 4’01’’ c’è una breve linea interessante pure come contenuto: null’altro che note della banale pentatonica minore (SIb) pure banalmente sovrapposte alla tonalità SIbm, ma la combinazione intervallare non è affatto banale, stagliandosi superbamente come un re sul trono.
Let’s Dance, per non pochi aspetti, è una piccola lezione di storia della musica popular.
* Le percussioni le suona Sammy Figueroa che, facendo la tara alla convenzionale parte delle congas, con figurazioni e suoni percussivo-coloristici, molto modernamente ben s’interseca.
** C’è anche quello della tromba, iniziale, ma breve e meno eterodosso (non presente nell’edizione “singolo”).
*** Presenti solo nella versione intera dell’album, in quella editata del “singolo” la durata della canzone è quasi dimezzata; oltre a una parte dell’intro (quella con la tromba) è eliminata gran parte della sezione centrale, prevalentemente strumentale, che fungeva da contrasto aumentando il gradiente ballereccio rispetto alla canzone, per poi concludere con la lunga coda con l’insistenza blueseggiante del chitarrista (nel singolo la coda col solo di SRW è stata editata e dimezzata).