Ero un adolescente nemmeno quindicenne; e avevo una certezza di quegli anni che stavano passando: non sapevo nemmeno lontanamente dove stessero andando.
Lo spazio per me era quel che era (piccolo in casa e sconfinato fuori); ne prendevo atto, lo potevo vivere ora dopo ora, giorno dopo giorno, senza che troppo mi turbasse: era lì e lì rimaneva, lo potevo gestire.
Di quell’estate ricordo soprattutto una luminosissima domenica mattina, con mio padre passeggiavo a Porta Portese, curiosando intorno alle solite bancarelle di musicassette (che a quell’epoca andavano tantissimo) ne scorsi una con in bella vista una registrazione di un disco di Frank Zappa con la copertina e titolo buffi: Sheik Yerbouti. Convinsi mio padre di acquistarla per me.
Sono stati i miei primi tre dischi di Zappa, e se è vero come è vero che sono tre dei suoi best seller è pure vero che non sono i suoi più creativi. Sono “facili”, a effetto, tuttavia sempre con un tasso qualitativo superiore alla media, che pure a quell’epoca era piuttosto alta.
D’altronde contengono alcuni tra i suoi migliori assoli di chitarra, e insieme con l’affetto che mi lega a loro perché saldati alle mie prime esperienze musicali - e tutti sanno quanto nostalgia provocano e segnano le esperienze adolescenziali - non posso che rammentarli come un qualcosa di inscindibile da me.
Tanto ho cercato d’imparare da un gigante come lui, un monumentale esempio di musicista a tutto tondo, capace di comporre musiche molto complicate ed estese o incisive come sberle, essere un maestro nel condurre in modo ferreo ampi gruppi o astrarsi in individualissimi soli; unico nel suo percorso.
Ma un’altra cosa, per me assai importante, ho imparato da quella cassetta acquistata a Porta Portese con mio padre, giovane adulto 37enne, ed è connessa a complesse reti esistenziali, a sentimenti aggrovigliati, nodi da sciogliere.
Certamente non ho contato gli episodi in cui ho avuto dei dissapori con lui sin da quei tempi, non rammento nemmeno vagamente il numero, di sicuro non furono pochi. Quel che però ricordo benissimo è quella cassetta che insieme ad altre facevo suonare nell’automobile, l’inverno successivo in un freddo viaggio che facemmo io e lui soli, andando in Calabria, tra monti innevati che costeggiavano il lento tragitto e i lunghi silenzi tra noi.
L’atmosfera era particolare, solitaria, “bianca”, eravamo come in una specie di limbo sospensivo, totalizzante; solo l’auto procedeva e con lei il paesaggio e la musica: ma sentivo che mi era vicino, attento a me, malgrado i problemi che lo attanagliavano e un’indole particolare… E anche se sono parecchi anni che non c'è più, lo ricordo sempre maggiormente, e con un calore che non avevo immaginato.
Forse siamo almeno in parte esito di una fatale ascendenza prossima - o atavica che sia - insieme con l’essere discendenti di noi stessi cioè della libertà di scelte che, nel tempo che ci è concesso vivere, ogni istante compiamo. Destino di un passato immutabile e temperamento acquisito nel fare scelte cui giocoforza ci abituiamo, ma che ogni istante muta, ancorché facciamo fatica a rendercene conto, financo resistenza, allontanando quei ricordi che ci possono immalinconire, e un po’ cambiare...
A volte basta il rammento dell’acquisto estivo di una cassetta di musica che suonava lungo montagne di un bianco inverno di tantissimi anni fa.