Tutti sanno che i Rolling Stones sono un gruppo che ha macinato brani di gran successo sin dagli anni Sessanta e che la loro musica è fondata sull’estrema semplicità: grezzo rock striato di R&B.
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Help! fu il primo brano dei Beatles che più mi avvinse a livello compositivo-esecutivo.
Ero un ragazzo che aveva da pochissimi anni iniziato lo studio della chitarra e della musica, pertanto la causa questa fascinazione era connessa a un’impressione a orecchio, affatto non razionale. La musica non esiste.
O meglio, esiste solo in un preciso spazio-tempo: la musica finché non è prodotta o riprodotta da strumenti o apparati elettronici che generano una variazione di pressione molecolare dell'aria, quindi un'energia, sussiste solo intellettualmente. Questo disco di Herbie Hancock pubblicato nel 1964 ha la mia età, ma non è certo per questo che ne scrivo oggi. Empyrean Isles è il quarto disco in studio di Hancock ed è un altro di quei dischi che ha contribuito ad ampliare la grandezza del Jazz, imprimendo ulteriori traiettorie a ciò che in questo genere gli artisti a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta stavano compiendo, andando oltre quella coniugazione stilistica chiamata hard-bop (e soul-jazz): la svolta modale e free.
Tubular Bells, pubblicato il 25 maggio 1973, è il primo album del britannico Mike Oldfield (e il primo della famosa casa discografica Virgin): per molti aspetti è un disco straordinario.
Penso che molti come me abbiano nel proprio cuore e nella propria mente alcuni dischi per peculiarità che sono percepite caratterizzanti: qualcuno in modo romantico, energico o complicato o… astratto. L’album Weather Report, il loro primo del ‘71, è il mio disco di astrazione... Musica ineffabile perché sembra senza forma, fluida; come suoni un po’ casuali e quindi non prevedibili, aleatori…
Però attenzione, l’astratto musicale in Weather Report non attiene semplicemente a rarefazione sonica con sospensione del parametro più elementare che collega tutti noi, ossia il ritmo: solo due brani, Milky Way e Orange Lady, non hanno scansioni percussive, e i rimanenti sei sono pure parecchio propulsivi ritmicamente. Avrò avuto suppergiù 14 anni quando ascoltai per la prima volta The Wind Cries Mary, e mi piacque subito, come a milioni di ascoltatori prima di me. La sensazione che ebbi fu di una canzone dolce ma forte, vigorosa e non smielata. E continuò a offrirmi questa impressione, sempre. Anche oggi è così. Già sapevo chi fosse Jimi Hendrix, la sua enorme fama e stima presso quelli più grandi di me che ci capivano di musica… D’altronde in quei tempi stavo imparando a suonare la chitarra, tentavo di informarmi e di Hendrix conoscevo altri brani e visto molti filmati.
Attribuii quella sensazione di virile romanticismo al suo modo di cantarla e suonarla la canzone, e per tanti anni la pensai solo in questa maniera: in parte è davvero così, ma non è la parte più rilevante. È noto che l’età aurea del Rock, all’incirca da metà anni Sessanta alla metà dei Settanta del ’900, ha compreso artisti e gruppi di eccezionale levatura che hanno prodotto capolavori cui ancor si fa riferimento. Innumerabili apporti di grande fantasia creativa e pregevolissime performance strumentistiche ognuno con spiccatissimo carattere individuale. Tra questi si è ulteriormente distinta una tanto piccola quanto importante corrente, per così dire, quella del Progressive, che ha, in stragrande maggioranza, fondato le proprie composizioni su matrici musicali europee e quindi della Classica e del proprio folclore, rinunciando pertanto agli esiti allora più in voga, ovvero a quelli americani segnatamente afroamericani: Rythm & Blues, Rock 'n' Roll, Funk, Jazz e dintorni.
Tra tutti questi artisti un gruppo si è ancor più differenziato, i Gentle Giant; e uno dei motivi lo vediamo brevemente appresso: il brano Three Friends dell’omonimo disco pubblicato nell’aprile del 1972. Come si suol dire, più unico che raro. Pochissime, misuratissime note, suoni, per esprimere vibrazioni poetiche… Ho sempre pensato alla poesia come a un qualcosa di esiguo, di estremamente raffinato; sofisticato. Come un diamante magistralmente tagliato con le migliori proporzioni per irraggiare più luce possibile. Concludo questa sorta di trilogia di articoli (qui e qui) dedicati ai Perigeo con uno dei brani che preferisco: Nadir. È contenuto nel bellissimo disco Abbiamo Tutti Un Blues Da Piangere pubblicato nel 1973.
Composto dal pianista Franco D’Andrea, quasi quattro minuti di grande atmosfera, senza assoli, basati su un nucleo di solo quattro note; ma è un nucleo eccezionale, trattato in modo straordinario... Quasi sempre le cose musicologiche sono più notevoli e interessanti quando si verificano contaminazioni tra generi. Poi se i generi in ballo differiscono parecchio, come il Jazz e il Rock, e se queste mescolanze accadono nello stesso periodo in modo tanto diffuso quanto distinto l’una dalle altre, andando così a scrivere capitoli fondamentali della storia della musica moderna, ecco che la questione assume una dimensione superiore. E i Perigeo (gruppo italiano di Jazz-Rock attivo nei ‘70) è l’altra faccia della medaglia di quei gruppi che a cavallo tra i Sessanta e i Settanta hanno contribuito a rendere il Rock un autorevole laboratorio di formidabili ibridazioni musicali: Cream, Colosseum, Soft Machine e King Crimson (tanto per citare i primi e tra i più famosi e influenti del panorama europeo) hanno dal versante rock “guardato” parecchio all’americano Jazz.
Di quel gran gruppo nostrano di Jazz-Rock chiamato Perigeo mi innamorai sin da ragazzino; successivamente l'ho amato in modo adulto e più consapevole. E proprio per questo mi ha fatto molto piacere vedere una recentissima pubblicazione della prima monografia a loro dedicata: il più importante gruppo italiano di musica strumentale. E seppur visto immediatamente che l’impianto del libro corrispondeva per circa tre quarti di aneddotica varia (biografie e interviste) e solo per un quarto alla descrizione dei brani dei loro dischi (peraltro non molto tecnica), l’ho acquistato senza indugio.
La popolarità che conseguì il brano Birdland* del gruppo Weather Report (a ragione diffusamente considerata band paradigmatica in quanto a qualità), contenuto nel disco Heavy Weather pubblicato nel 1977, fece un bel rumore nell’ambiente musicale. Dunque Birdland, un grande apparato musicale dotato di semplici congegni, è divenuto un campione della Fusion, un suo vettore basilare. Un appassionato, Davide, chiede a Rocco, l’amico esperto: cosa avrebbe di speciale questo pezzo?
Rocco: i motivi sono tanti… I due che subito mi sovvengono sono che unisce un ritornello (chiamiamolo così) parecchio saltellante e cantabile, da allegra filastrocca, con molte altre parti e non solo una strofa e un ponte come accade solitamente; in tutto sono ben 8; semplici, ma tante. Peraltro di carattere piuttosto differenti dal ritornello. Quindi un breve tema (il ritornello) ripetuto moltissime volte (nel finale per oltre un minuto e mezzo!) incastonato in una struttura complessa. Il secondo è che è suonato da un gruppo di apicale valore; non semplicemente da musicisti molto bravi o famosi. Nel 1983 (registrato l’anno precedente) fu pubblicato un pregevolissimo disco dal vivo, Travels (doppio), di un gruppo in ascesa in termini di qualità artistica e di consensi di pubblico, oltre che composto di brani perlopiù inediti: ben otto dei dodici (in 11 tracce). Un’altra particolarità, per un live, è che ben quattro pezzi sono delle minimali ballad prevalentemente chitarristiche: Goodbye, Farmer's Trust, Goin' Ahead e Travels. Il Pat Metheny Group di quest’opera è un quintetto capitanato dal chitarrista-compositore Pat Metheny, sontuosamente coadiuvato dal tastierista-compositore Lyle Mays, e perfezionato dalla “ritmica” di Steve Rodby (basso e contrabbasso) Danny Gottlieb (batteria) e dal brasiliano Nana Vasconcelos (percussioni e vocalizzi).
Il primo disco degli Area che ebbi (e che ascoltai) fu Crac. Mi ricordo che oggi come allora era estate, forse del 1980. Loro mi attraevano moltissimo, erano complicati… Però un paio di brani di Crac (o meglio, uno e mezzo) mi sembravano come dei qualsiasi pezzi rock: Gioia e Rivoluzione e la seconda parte de La Mela di Odessa. Non a caso sono in assoluto tra i loro brani più famosi. Gioia e Rivoluzione non mi attirava musicalmente, troppo canzoncina, però “La mela” sì!
Il suo riff mi stregava, tante note (23) ma così cantabile… E siccome ero nell’adolescenza anche per quanto riguardava lo studio musicale, pensai bene di misurarmi con quello che percepivo alla mia portata: mi sbagliavo. Poco ci mancò di esser travolto dalla delusione di non esser stato capace di trascriverlo ed eseguirlo correttamente, di lasciar stare lo studio... Questo post è un addendum al precedente articolo sull’armonia in cui è citato Allan Holdsworth, tanto per dare un piccolo riferimento sostanziale volto a mostrare come spesso le cose creative non sono solo teoriche, futuribili, esiti di speculazioni e agognate realtà, ma già compiute in questo tempo, appena passato, ovvero nella nostra era; senza indicare necessariamente Listz o Debussy… In piena seconda ondata british, quella elettro-pop degli anni Ottanta, Holdsworth nel 1986 pubblicò un disco “strano”, Atavachron.
La forma offre un elemento identificativo stabile della realtà, infatti spesso di questa tendiamo a prenderne possesso proprio attraverso la percezione della forma; la nostra pulsione è definirne i contorni. Tendiamo perciò ad avvertire la forma per la sua funzione regolatrice. A volte, più o meno consciamente, non comprendiamo una forma ma sentiamo che c’è, per noi è indefinita e quindi ci sfugge, tuttavia non avvertiamo disordine, perché c’è...
E’ noto che il tempo lo misuriamo mediante ciclicità, che sia quella dell’arco di un giorno, delle stagioni o delle lancette di un orologio… E quando si tratta di musica più o meno tutti hanno sentito dire “questo pezzo è in 4/4”, e a cosa sia riferito molti lo hanno intuito, ovvero al tempo musicale. È chiamato metro*. Il metro è il conteggio degli intervalli simmetrici del tempo (battiti) a cui lo scorrere musicale è ineluttabilmente correlato; indica quanti siano quelli raggruppati (nel modo più semplice e logico) in una “scatolina” chiamata misura (o battuta). Ciò si determina dal periodare degli accenti insiti nel ritmo, sovente dalle parti cicliche di un groove di batteria o di un riff di chitarra o basso.
Le levigate melodie iper diatoniche della musica del periodo barocco o classico (‘600/’700) hanno fatto ai più intendere che l’angolarità e il cromatismo, le “dissonanze” e le complessità extra tonali siano prerogative dei secoli successivi, quelli regnati da titani come Wagner, Charlie Parker, Debussy, Davis, Schönberg, Monk, Stravinsky, Coltrane, Mahavishnu Orchestra, Mingus, Bartok, King Crimson...
Non è andata in questo modo. Un po’ tutti gli ascoltatori dall’impronta quasi fisica del “primo ascolto” di un brano e quindi di un disco ne traggono la sintesi; il "mi piace/non mi piace" è strettamente correlato e interdipendente da quella percezione degli aspetti sovratrutturali: un minimo di forma e colori del “testo”, la sua esteriorità. In seguito chi vuole, a seconda delle proprie capacità, può condurre un’analisi degli aspetti strutturali ossia cosa c’è scritto nel testo, e pertanto conseguire ulteriori sintesi che vanno a integrare, più o meno riformandole, le prime.
A me è capitato tantissime volte, ve ne racconto una. Anno Domini 1980, Pino Daniele con soltanto tastiere, basso, batteria e la sua voce (ed esigue sovraincisioni) ha realizzato uno dei suoi brani più famosi: A Me Me Piace 'O Blues. “È un rock bambino soltanto un po' latino una musica che è speranza una musica che è pazienza” Così il nostro grande Ivano cantava nella sua hit di 40 anni fa “La mia Banda Suona il Rock”: il cosiddetto latin-rock fu un termine coniato per inquadrare quella peculiare musica che i Santana dal festival di Woodstock in poi diffusero nel mondo. Nei loro primi tre dischi (Santana, Abraxas e Third) in pratica c’è già tutto di questa particolare mescolanza: un’effervescente musica apparentemente tanto semplice, cantabile e sovente ballabile, quanto strutturata e innervata di finezze compositive ed esecutive.
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Carlo Pasceri
Chitarrista, compositore, insegnante di musica e scrittore. TEORIA MUSICALE
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Settembre 2020
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